Un falso amico

“Falso amico” è l’espressione che si usa per indicare due termini che in altrettante lingue sembrano tra loro molto simili, al punto che appare quasi inevitabile utilizzare l’uno per tradurre l’altro, e che invece celano dietro la somiglianza esteriore il riferimento a realtà molto diverse. In questo senso, anche il latino familia e l’italiano “famiglia” possono essere considerati un caso di “falsa amicizia”: sebbene il termine in uso nella nostra lingua (e presente anche nel francese famille, nell’inglese family e così via) sia naturalmente derivato dal latino, nei millenni che ci separano dalla cultura romana quel termine ha finito per designare una realtà molto diversa, che gli stessi romani stenterebbero a riconoscere, se potessero vederla.

Cominciamo dall’etimologia, che costituisce sempre un buon punto di partenza quando si tratta di analizzare un certo fenomeno sociale o culturale. Il latino familia deriva dal sostantivo famulus, a sua volta probabilmente di origine osca, proveniente cioè dalla lingua più diffusa nell’Italia meridionale alla metà del I millennio a. C.; solo che famulus indica in latino il servo, lo schiavo. Familia è dunque a Roma anzitutto il gruppo dei servi di casa: un significato di cui resta traccia, in epoca storica, in locuzioni come familia rusticafamilia urbana, per designare rispettivamente l’insieme degli schiavi addetti al fondo agricolo o alla residenza di città del padrone. Altrettanto antico – compare, per esempio, nel più antico codice di leggi scritte, le cosiddette Dodici tavole, redatte a Roma alla metà del V secolo a.C. – è l’uso di familia per indicare non solo gli schiavi, ma l’insieme delle proprietà di un individuo, comprendente tutti i beni necessari alla vita della famiglia, dalle terre agli animali da lavoro: di qui l’espressione formulare familia pecuniaque, “la familia e la ricchezza”, con la quale il diritto indica il complesso dei beni mobili e immobili dei quali la famiglia dispone e che formano oggetto di trasmissione ereditaria.

In entrambi questi significati, insomma, il latino familia appare molto distante dal suo derivato italiano; ma le cose non cambiano quando il termine si estende a indicare qualcosa di apparentemente più simile alla nostra nozione di “famiglia”. Qui, dopo aver fatto ricorso ai servigi dell’etimologia, può convenire invece rivolgerci ai giuristi: come si sa, la cultura romana ha dato un impulso enorme alla creazione di un diritto omogeneo, capace di descrivere e disciplinare le infinite forme che può assumere la relazione fra esseri umani; dobbiamo dunque aspettarci che gli antichi giuristi si siano preoccupati di fornire anche una loro definizione di famiglia, e in effetti è proprio così. Senonché anche in questo caso l’esito è piuttosto sorprendente.

«Sotto l’autorità di uno solo»

Così, per il giurista Ulpiano, attivo all’epoca dei Severi, fra II e III secolo d.C., la famiglia costituisce «un insieme di persone che sono soggette per nascita o per diritto alla potestà di uno solo», colui che i romani chiamavano pater familias. Chi sono queste persone? Almeno nella fase più antica della storia di Roma, esse comprendono la moglie del pater familias, che secondo il diritto entrava a far parte della sua nuova famiglia loco filiae, venendo cioè a occupare, rispetto al marito, la posizione di una figlia nei confronti del padre; i figli, naturali o adottivi, e le mogli di questi, i figli dei figli, se il pater viveva abbastanza a lungo da vederli, oltre che naturalmente gli schiavi, che come sappiamo costituivano la familia in senso proprio. Sotto il controllo del pater ricade poi l’insieme dei beni, mobili e immobili, anch’essi chiamati nel latino più arcaico familia, mentre un termine come “patrimonio” ricorda ancora oggi la loro originaria appartenenza alla figura del pater.

Come si vede, dunque, la familia romana è qualcosa insieme di molto complesso e di molto diverso dal gruppo umano che noi definiremmo “famiglia”. Intanto, di esso fanno parte anche oggetti e beni materiali, accanto alle persone; in secondo luogo, anche queste ultime non sono necessariamente legate fra loro da rapporti di parentela, anzi la familia comprende anche individui, come gli schiavi, che la cultura romana considera un secundum hominum genus, una sorta di “genere umano di seconda classe”, assimilato a una merce e, in quanto tale, soggetto all’arbitrio assoluto del padrone. Ciò che definisce la famiglia, e tiene insieme un gruppo così eterogeneo di componenti, è piuttosto, come spiega Ulpiano, il loro comune assoggettamento all’autorità di uno solo: il pater familias non è solo la figura più eminente della famiglia, ma è anche il vertice ideale verso il quale convergono tutti i diversi fili che compongono il tessuto familiare, accomunati dal fatto di essere, sia pure in modi e forme diverse, subordinati alla stessa figura. Insomma, la famiglia romana è molto più una questione di potere e di autorità che non di legami affettivi o vincoli di parentela.

Proviamo allora a guardare più da vicino al pater familias e all’amplissimo spettro di poteri di cui dispone. In primo luogo, i romani sono perfettamente consapevoli che l’insieme di questi poteri, quella che essi definiscono patria potestas, costituisce un tratto specifico della loro cultura: presso di noi, ripetono storici e giuristi, i padri hanno un’autorità sconosciuta altrove, persino superiore a quella che un padrone esercita sui propri schiavi. Non solo: i romani erano persuasi che a stabilire i contenuti concreti di questa autorità, i modi in cui poteva realizzarsi, fosse stato il fondatore stesso della città, Romolo; una convinzione con la quale si esprimeva la certezza che quel potere fosse nato con Roma stessa e coincidesse con un tratto forte e originario dell’identità romana.

Romolo avrebbe dunque stabilito, in primo luogo, che il potere del padre fosse vitalizio, cessasse cioè solo con la morte del padre stesso: la cultura romana non conosce nulla di paragonabile alla nostra idea di “maggiore età”, di un momento cioè a partire dal quale un figlio, anche se vive ancora in famiglia ed è lontano dall’aver raggiungo l’indipendenza economica, appare comunque un soggetto autonomo e responsabile di sé sul piano del diritto. Al contrario, a Roma un figlio continua a rimanere soggetto al padre anche se è adulto, anche se ha intrapreso la carriera politica ed è arrivato a ricoprire cariche che gli attribuiscono un potere enorme sugli altri cittadini, persino se ha a sua volta dei figli: e non è difficile immaginare quali tensioni questo potesse determinare, soprattutto intorno alla questione delicatissima del patrimonio familiare, la cui titolarità continuava a restare nelle mani del padre, lasciando il figlio in una sgradevole posizione di dipendenza.

Ma il carattere vitalizio del potere paterno è solo un aspetto della patria potestas: a Roma un padre può vendere un figlio, può picchiarlo, può obbligarlo a una sorta di domicilio coatto in campagna, la rusticana relegatio, e può giungere persino a ucciderlo, benché a quanto pare già nelle Dodici tavole fosse prevista una clausola che imponeva l’obbligo della giusta causa, evidentemente per limitare il possibile uso arbitrario di questa facoltà. In effetti, le fonti relative a padri che mettono a morte i propri figli sono piuttosto rare; ma non va dimenticato che quel potere si esercitava anzitutto al momento della nascita, allorché era il padre a stabilire se allevare il nuovo nato o se invece esporlo, cioè abbandonarlo alla sua sorte, deponendolo sulla pubblica via. La scelta di tenere il bambino era simbolicamente espressa dall’atto di sollevare il neonato dalla terra sulla quale era stato deposto, atto che spettava al solo padre, e questo gesto, espresso in latino dal verbo tollere (“sollevare”, appunto), era così importante che tollere finì per designare il fatto stesso di avere avuto un figlio. A Roma, in un certo senso molto concreto, un figlio non nasce al momento del parto, ma allorché suo padre esercita il proprio diritto su di lui manifestando l’intenzione di accoglierlo all’interno della famiglia.

Lo spazio delle donne

Abbiamo parlato sino a questo momento soprattutto di padri: ma naturalmente nella famiglia romana un ruolo di primo piano è giocato anche dalla figura materna. A giudicare dai testi giunti sino a noi, il rapporto fra madri e figli appare connotato in termini esplicitamente affettivi, ben lontano dalla freddezza che impronta spesso la relazione con il padre: la madre appare una figura protettiva, tesa a evitare ai figli fatiche e pericoli, solidale con le loro istanze e pronta a schierarsi in loro difesa soprattutto di fronte a un esercizio ingiusto o abusivo dei poteri paterni. Va anche detto però che i testi che ci riportano questa immagine del ruolo materno sono pur sempre scritti da uomini e risentono del loro giudizio – non di rado polemico – sulla funzione giocata dalla madre: una volta di più, quelle dell’antichità greca e romana sono donne silenziose, la cui voce ci giunge filtrata, e inevitabilmente alterata, da quella dei loro padri, figli o mariti.

Quanto alle relazioni coniugali, diciamo che il matrimonio romano tende a configurarsi, almeno a livello di ceti ricchi – quelli sui quali disponiamo delle maggiori testimonianze –, soprattutto come un’alleanza tra famiglie potenti allo scopo di cementare sodalizi politici o di favorire convergenze patrimoniali, oltre che come spazio esclusivo della riproduzione legittima. I figli sono anzi lo scopo ultimo del matrimonio, come era chiaro sin dalla formula ufficiale di fidanzamento, nella quale il padre della sposa dichiarava di concedere la propria figlia al futuro genero liberum quaesundum causa, cioè appunto «per l’ottenimento di figli legittimi».

Tutto questo aveva naturalmente delle conseguenze precise: a Roma, amore, sessualità e matrimonio restano ambiti ben distinti; il sentimento coniugale – quando c’era, perché in ogni caso non si giudicava da questo la riuscita di un matrimonio – consisteva in un misto di stima, affetto, senso di protezione ed esercizio del dominio, da un lato, di ammirazione devota (per un uomo che aveva spesso il doppio degli anni di sua moglie) e di sottomissione dall’altro. Soprattutto, le donne erano tenute al rigoroso rispetto della fedeltà coniugale, coltivando prima di ogni altra la virtù che i romani chiamavano pudicitia e che consideravano il merito più grande cui una moglie potesse aspirare. Il fatto è che la donna si colloca in posizione di cerniera fra due generazioni, costituisce lo snodo, mai del tutto affidabile ma al tempo stesso imprescindibile, di un percorso che connette strettamente antenati e discendenti; attraverso il suo corpo passa infatti, in senso tutt’altro che metaforico, il sangue del gruppo familiare, cioè la sua identità profonda, ciò che costituisce l’elemento caratterizzante e distintivo del gruppo stesso. Compito della donna è quello di assicurare che questo passaggio avvenga senza scosse, senza pericolose intromissioni di elementi estranei, senza mescolanze di sangue che determinerebbero uno stato di confusione e smarrimento, in cui nessuno saprebbe più con certezza di chi sia figlio.

Ne consegue che l’adulterio costituisce la colpa femminile per eccellenza, la cui sanzione viene per secoli affidata all’iniziativa privata delle famiglie coinvolte e poi, in età imperiale, assunta in prima persona dall’autorità politica, con una legislazione ad hoc e l’istituzione di un tribunale speciale. Lo stesso divieto di bere vino, imposto alle donne in età arcaica, viene spiegato dalle fonti proprio con il timore che l’alcol allenti i freni inibitori e renda la matrona più incline al tradimento; sempre allo stesso modo i romani giustificavano del resto il “diritto del bacio”, l’obbligo cioè per la donna di farsi baciare sulla bocca dai propri parenti maschi, il quale mirerebbe proprio ad accertare l’eventuale consumo di vino.

Del resto, gli antichi sono persuasi che la donna sia caratterizzata da un forte deficit razionale, da una capacità assai limitata di imbrigliare la propria incandescente sostanza emotiva: ogni ulteriore allentamento di quella capacità rischia perciò di far emergere la natura più autentica della donna, la sua connaturata e a stento controllabile inclinazione alla passione e al piacere. Ecco perché la donna deve essere costantemente assoggettata al governo di una figura maschile, il padre prima, il marito successivamente; e anche nei casi in cui tali figure vengano meno, la legge prevede l’assegnazione di un tutore che accompagni la donna nello svolgimento delle sue attività, specie quelle dotate di rilevanza giuridica, e assicuri che nessuna smagliatura si determini nella rete del controllo e che in ogni momento la matrona sia protetta, anzitutto da se stessa.

Qualche considerazione conclusiva

Quello che abbiamo descritto è naturalmente un quadro in larga misura astratto: nel corso di oltre mille anni di storia, la famiglia romana si è modificata in misura significativa, nuovi istituti sono sorti, altri sono caduti in desuetudine, i poteri del padre sono stati progressivamente circoscritti e l’indipendenza delle donne è aumentata, la sanzione di alcuni crimini familiari è stata avocata a sé dal potere politico, per non parlare dell’influenza che grandi sistemi di pensiero, come la filosofia stoica o, più tardi, la religione cristiana, hanno avuto anche sulla legislazione relativa alla famiglia.

Da un altro punto di vista, però, alcuni tratti strutturali della famiglia romana hanno esercitato un’influenza che giunge sino alle soglie del nostro tempo, e per alcuni aspetti appare tuttora presente: per fare un paio di esempi e limitarsi al solo caso dell’Italia, è da pochi decenni appena che nel nostro ordinamento è stato cancellato il delitto d’onore, cioè l’impunità riconosciuta al marito che avesse ucciso l’amante della moglie per tutelare il proprio “onore” offeso e l’integrità del proprio matrimonio, e ancora più recenti sono le leggi che parificano padre e madre nei diritti e nei doveri verso i figli, sostituendo la nozione di “patria potestà”, diretta erede della cultura romana, con quella di “potestà genitoriale”. In questo come in tanti altri campi, il nostro presente è legato a doppio filo al passato; e può capitare talora che questo filo diventi un cappio, del quale è tanto difficile quanto importante liberarsi.