Nel 2013, il presidente cinese Xi Jinping ha promosso la realizzazione del progetto “One belt, one road” (in cinese “yidai, yilu”). Ribattezzato poi “Belt and Road Initiative” (Bri) punta a incrementare i collegamenti infrastrutturali (ferrovie, strade, porti, gasdotti, oleodotti ecc.) e commerciali tra la Repubblica popolare e il resto del continente eurasiatico e l’Africa. In Italia è conosciuto come “Nuove vie della seta”, in quanto il progetto è ispirato all’antico percorso che collegava Oriente e Occidente. La Bri costituisce oggi il pilastro della politica estera cinese, sulla base del quale Pechino intende costruire un futuro ordine mondiale con la Repubblica Popolare come polo di riferimento.
Durante il 19° Congresso nazionale del Partito comunista cinese (Pcc, che si tiene ogni cinque anni), il “perseguimento” di questo progetto è stato inserito esplicitamente nello statuto del Partito. Ciò sottolinea la sua rilevanza per il “sogno cinese” del “risorgimento della nazione”, inteso come ritorno della Cina al livello di potenza mondiale dopo le invasioni subite dai paesi stranieri (europei, Russia e Giappone) a cavallo tra il XIX e XX secolo. L’obiettivo, secondo Pechino, dovrebbe essere raggiunto entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare.Intorno al concetto di “sogno cinese” ruota il “pensiero di Xi Jinping sul socialismo con caratteristiche cinesi per una nuova era” che al Congresso è stato definito la “guida all’azione” del Partito e posto nello statuto accanto al “pensiero di Mao Zedong”, padre della Repubblica Popolare.
La prima mappa pubblicata dall’agenzia di stampa cinese Xinhua nel 2013 - più concettuale che operativa - descrive le due rotte principali di riferimento: quella terrestre, chiamata dai cinesi Cintura economica della via della seta, parte dalla Cina, attraversa i paesi dell’Asia Centrale, la Russia, l’Iran, la Turchia e raggiunge l’Europa del Nord; quella marittima, chiamata nel gergo ufficiale Via della seta marittima del 21° secolo, parte dalla costa della Cina, tocca i paesi del Sudest asiatico, lo Sri Lanka, il Pakistan, raggiunge l’Africa facendo tappa a Gibuti, sale a nord e attraversa il canale di Suez per poi raggiungere il Mar Mediterraneo; qui la rotta tocca la Grecia e poi Venezia, ideale punto di collegamento tra il percorso terrestre e marittimo.
Nella mappa – più dettagliata - divulgata nel 2016 (fonte: Amministrazione nazionale cinese per il rilevamento, la mappatura e la geoinformazione) il primo percorso si interrompe nel Nord Europa mentre il secondo schiva l’Italia, che sembra non figurare più tra le tappe della iniziativa, e prosegue verso l’oceano Atlantico senza una meta precisa, suggerendo le infinite possibilità che nel lungo periodo la Bri offre al mondo, Americhe incluse.
La carta non ha un valore vincolante per gli sviluppi delle nuove vie della seta. Tuttavia, dalla prospettiva italiana, dovrebbe essere considerata un incentivo a fare di più per cogliere le opportunità offerte dalla Bri ed evitare di subirne passivamente lo sviluppo. Come si vedrà più avanti, l’Italia è già impegnata nel ritagliarsi un ruolo in questo progetto.Le nuove vie della seta coinvolgono ad oggi 74 tra paesi e istituzioni internazionali. Pechino ha investito 50 miliardi di dollari in progetti ad esse collegati e 56 zone economiche sono state istituite in più di 20 stati1. Nei primi 9 mesi del 2017, il commercio tra la Repubblica Popolare e i paesi coinvolti nella Bri è pari a 786 miliardi di dollari.Lo sviluppo della Bri poggia essenzialmente sulla spinta propositiva della Cina e sull’attività di alcuni enti. L’Asian infrastructure investment bank (Aiib), di cui l’Italia è uno dei paesi fondatori, è una banca multilaterale con sede a Pechino che ha lo scopo di finanziare i progetti infrastrutturali in Asia-Pacifico. Per mandato, questo istituto non dovrebbe selezionare i propri investimenti in base a ragioni politiche. Tuttavia l’Aiib fa certamente parte del grande disegno di Pechino di tracciare il suo ordine mondiale ed è considerata in Occidente un’antagonista della Banca Mondiale e dell’Asian development bank, rispettivamente a guida statunitense e giapponese.
Il Silk Road Fund, fondo da 45 miliardi di dollari istituito per finanziare i progetti lungo le vie della seta, ha sempre sede nella capitale cinese. Inoltre, Pechino sta lavorando allo sviluppo della Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep), una zona di libero scambio in Asia-Pacifico, originariamente considerata antitetica alla Trans Pacific Partnership (Tpp)2 proposta dagli Usa durante l’amministrazione Obama e da cui quella di Donald Trump ha annunciato il ritiro poco dopo essere stato eletto presidente.
Malgrado il progetto delle nuove vie della seta abbia una dimensione globale, la decisione di Pechino di lanciare questa iniziativa è dipesa, in primo luogo, da interessi di natura domestica legati all’andamento dell’economia cinese.
Negli ultimi trent’anni il tasso di crescita del Pil aveva registrato una media del 10% per poi rallentare dal 2011 in poi. Attualmente, questo oscilla tra il 6,5 e il 7%. La Cina, considerata in Occidente la “fabbrica del mondo”, cerca oggi di cambiare assetto economico per diventare un “paese socialista prospero, forte, democratico, culturalmente avanzato e armonioso” entro il 2049.
A tal fine Pechino punta a ridurre la dipendenza dalle esportazioni (traino dell’economia cinese); aumentare la qualità della vita dei cittadini; diminuire il divario di ricchezza tra la costa (dove si concentrano i centri politici ed economici) e l’interno del paese e tra città e campagne; punta, inoltre, sui consumi interni e sul settore dei servizi; ad abbattere i livelli d’inquinamento determinato dall’uso massiccio del carbone; a contrastare l’alto livello di debito e l’inefficienza che caratterizza le imprese di Stato. Le nuove vie della seta possono contribuire a risolvere questi problemi coinvolgendo maggiormente le regioni interne del paese nelle attività economiche nazionali, permettendo alla Cina di elevare la qualità dei propri prodotti e tecnologie (anche per la tutela dell’ambiente) e aprendo alle aziende cinesi nuovi mercati di destinazione.Gli investimenti di Pechino in settori chiave come quello infrastrutturale (siderurgico in primis) hanno, inoltre, determinato negli anni passati una capacità produttiva di gran lunga superiore alla domanda domestica ed estera. La Cina produce 800 milioni di tonnellate di acciaio: quanto il resto del mondo messo insieme.
In tale contesto, Pechino punta in primo luogo a cercare nuovi mercati dove impiegare la sovracapacità industriale delle sue imprese. In secondo luogo, il governo vuole elevare la qualità dei prodotti cinesi investendo nelle imprese straniere e acquisendo il loro know-how (le loro conoscenze) tecnologico. Inoltre, vuole consolidare i rapporti commerciali con i paesi partner e diversificare le fonti di energia impiegate. La Repubblica Popolare infatti ha un costante bisogno di risorse energetiche e allo stesso tempo deve ridurre l’utilizzo del carbone. Le nuove vie della seta permettono alla Cina di sviluppare nuovi accordi in tale contesto. Tra i più rilevanti, si ricordano quelli conclusi con la Russia per l’acquisizione di gas naturale.
Pechino afferma di non considerare le nuove vie della seta come uno strumento geopolitico3, ma le conseguenze strategiche di questa iniziativa sono innegabili. La Bri infatti consente alla Cina di espandere i propri interessi economici all’estero, di consolidare il proprio soft power (la capacità di creare consenso attraverso la persuasione e non l’uso della forza) lontano dai confini nazionali e di rispondere al Pivot to Asia (“il perno sull’Asia”), la strategia degli Usa per contenere l’ascesa economica e militare della Cina in Estremo Oriente, che prevede il consolidamento dei rapporti con i paesi alleati che percepiscono Pechino come una minaccia, per esempio: Giappone, Corea del Sud, India, Vietnam, Filippine, Malaysia, Australia.Pechino è inoltre impegnata in un processo di riforme delle Forze armate volto a trasformare la Cina in una potenza cibernetica (capace di utilizzare il ciberspazio come strumento di potere) e marittima, al fine di colmare il divario in questo campo con gli Stati Uniti. Il governo cinese rivendica, inoltre, il controllo del 90% del Mar Cinese Meridionale, la cui sovranità è tuttavia contesa con Vietnam, Filippine, Taiwan, Malaysia, Indonesia e Brunei. A tal fine la Cina sta costruendo (come gli altri paesi, ma con maggiore intensità) delle isole artificiali per fini militari e civili in questo bacino d’acqua, negli arcipelaghi Paracel e Spratly. L’obiettivo è proteggere la costa da possibili attacchi e controllare il commercio da e per la Cina passante per lo stretto di Malacca. In quest’area, Pechino non esclude infatti che un giorno i suoi traffici possano essere sottoposti a embargo da parte di Washington e dai suoi alleati. Per contrastare le pretese di sovranità cinese, da qualche anno gli Usa conducono operazioni di navigazione e di sorvolo in prossimità degli avamposti artificiali.
In un’ottica di lungo periodo, è altamente probabile che la necessità di tutelare lo sviluppo degli interessi del Dragone e l’incolumità dei cinesi all’estero (anche loro colpiti da rapimenti e attentati terroristici in Africa e Medio Oriente) possa spingere la Repubblica Popolare ad aumentare la sua presenza militare in altre parti del mondo.La nuova base costruita da Pechino a Gibuti (la prima all’estero della Cina) permette di cogliere anche la dimensione militare delle nuove vie della seta, nonostante il governo cinese e i media ne sottolineino le sole finalità pacifiche. Gibuti ospita anche le basi di Stati Uniti, Giappone, Francia e Italia e si trova sullo strategico Corno d’Africa, in prossimità del Canale di Suez (Egitto), uno degli snodi fondamentali dei traffici marittimi mondiali. L’obiettivo cinese è quello di fornire supporto logistico alle operazioni antipirateria e antiterrorismo in mare aperto. Ricordiamo qui che la Cina è il primo paese per truppe fornite alle missioni di peacekeeping tra i membri del Consiglio di sicurezza dell’Onu.
Lungo la rotta marittima, e in particolare nel mar Mediterraneo, la Repubblica Popolare è interessata a investire nei porti che hanno una posizione strategica - possibilmente collocati in paesi stabili sul piano politico ed economico - che le consentano di monitorare i cosiddetti “colli di bottiglia” del commercio mondiale (per esempio lo stretto di Malacca in Estremo Oriente e il canale di Suez in Africa) oppure di sviluppare percorsi alternativi per ridurre la dipendenza dagli stessi. Per questo, Pechino investe sia sulla sponda sud, sia su quella nord del “mare nostrum”.Il porto del Pireo in Grecia, controllato dal gigante della logistica cinese Cosco, è per la Cina il perno dei flussi commerciali delle nuove vie della seta che solcano questo bacino d’acqua. Nell’aprile 2017 il volume di container accolti dalla Cosco nello scalo greco è stato pari a circa 296 mila teu (+10,8%)4. Il 70% della flotta di questa azienda cinese è impiegato lungo le nuove vie della seta marittime.
Nei piani del governo cinese, il Pireo dovrebbe essere collegato al cuore dell’Europa grazie alla costruzione di una rotta ferroviaria lunga 350 chilometri passante per i Balcani lungo l’asse Macedonia-Serbia-Ungheria. Ma la penisola balcanica non è stabile sul piano geopolitico e ciò potrebbe rendere lo sviluppo del progetto meno agile del previsto.Nel Mediterraneo sono rilevanti anche gli investimenti cinesi in Egitto, in particolare presso il Canale di Suez e a Porto Said; quelli in Turchia, dove la Cosco controlla il terminal di Kumport (Ambarli); a Tangeri (Marocco), dove sarà costruito un parco industriale da 2 mila ettari in prossimità dello stretto di Gibilterra; a Cherchell (Algeria, prima destinazione per volume d’investimenti cinesi nel Nordafrica). Cosco, inoltre, controlla il 40% del Vado Refeer Terminal di Savona-Vado Ligure, il quale sarà operativo dal 2018, potrà movimentare 900 mila teu l’anno e accoglierà le portacontainer da 19-20 mila teu.
Anche se con meno celerità rispetto ad altri Stati, l’Italia si sta ritagliando un ruolo in questo contesto. A margine del Forum delle nuove vie della seta svoltosi a Pechino nel maggio 2017, il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ha incontrato il suo omologo cinese Li Keqiang e Xi Jinping. Cina e Italia hanno firmato un memorandum d’intesa per creare un fondo di co-investimento sino-italiano dedicato al sostegno delle piccole e medie e imprese e dotato di un fondo da 100 milioni di euro. Soprattutto, Gentiloni ha affermato che il governo cinese vuole investire nei porti di Genova e Trieste, il quale è l’unico in Europa a godere di extraterritorialità doganale.Nonostante, l’alto valore simbolico e culturale, Venezia invece al momento non è tra le mete preferite di Pechino per lo sviluppo di progetti infrastrutturali. In previsione di questo, tuttavia, un consorzio italo-cinese, chiamato 4C3, sta sviluppando una piattaforma multimodale (con infrastrutture in mare aperto e sulla terraferma) per superare il problema dei fondali troppo bassi e ampliare la capacità di ricezione delle merci.Lungo la rotta terrestre, va segnalato il ruolo del polo logistico integrato di Mortara (che integra la logistica con servizi per il trasporto, lo stoccaggio e la movimentazione delle merci), vicino Pavia, che ha concordato con il Changjiu Group il lancio del primo treno merci diretto Cina- Italia-Cina con destinazione Chengdu. L’inizio del progetto era previsto per settembre 2017, ma ad oggi non si hanno informazioni sull’effettiva partenza. I treni merci dovrebbero impiegare circa 18 giorni per arrivare nello Stivale e poi tornare indietro con a bordo prodotti made in Italy. Per il 2018 erano previsti fino a tre viaggi a settimana e il collegamento con Shanghai e Pechino. Mortara è all’incrocio tra il Corridoio mediterraneo e il Corridoio Reno-Alpi della Trans European Network-Transport (Ten-t), la ferrovia europea che dovrebbe entrare in funzione nel 2030 per interconnettere le reti infrastrutturali nazionali, collegare tra loro le regioni europee e queste al resto del mondo.Sul piano economico, Cina e Italia cooperano in diversi settori: tecnologie verdi e sviluppo sostenibile, agricoltura e sicurezza alimentare, urbanizzazione sostenibile, sanità e servizi sanitari, aviazione e aerospazio. Il nostro paese è, infatti, la terza meta degli investimenti del Dragone nell’Ue dopo Regno Unito e Germania. Alcuni di questi riguardano anche settori di interesse nazionale come l’energia e le telecomunicazioni. Si pensi al fatto che la Banca Centrale cinese detiene oltre il 2% rispettivamente di Eni, Enel, Fiat Chrysler Automobiles, Telecom Italia e Prysmian, che opera nel settore dei cavi e dei sistemi a elevata tecnologia per il trasporto di energia e telecomunicazioni. (La crescita delle operazioni cinesi nel Vecchio Continente ha spinto l’Ue a sviluppare una nuova cornice normativa per prevenire l’acquisizione di aziende d’interesse strategico da parte di compagnie statali extra-continentali.)Secondo il rapporto Cina 2017. Scenari e prospettive per le imprese della Fondazione Italia-Cina, nel 2016, l’interscambio sino-italiano ha superato i 38 miliardi di euro, l’export nostrano (11 miliardi) è cresciuto di circa il 6% rispetto all’anno precedente.
Nel settore agroalimentare lo studio rileva che nei primi due mesi del 2017 l’esportazione di prodotti italiani in Cina sia aumentata del 12% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. L’interesse per il cibo italiano dipende da tre fattori interni alla Cina: l’aumento del consumo di alimenti, la scarsità di terre coltivabili (solo il 7% di quelle del pianeta), in proporzione alla popolazione (il 22% di quella mondiale), e le trasformazioni della dieta cinese, sempre più orientata al consumo di proteine e latticini. In tale contesto, citiamo l’accordo tra Centrale del Latte e Alibaba, gigante dell’e-commerce cinese, per la vendita sulla piattaforma Tmall del latte a lunga conservazione a marchio Mukki. Tra gennaio e agosto 2017 l’export complessivo italiano verso la Repubblica Popolare ha registrato una crescita del 26%.Considerati questi progressi, ciò che manca all’Italia per partecipare appieno al progetto cinese è l’effettiva trasformazione di uno dei porti sopra menzionati in snodo per i traffici commerciali tra Europa e Cina.
Le nuove vie della seta rappresenterebbero, tuttavia, un’opportunità per l’Italia per diverse ragioni. La Bri può alimentare gli investimenti cinesi nel nostro paese; generare opportunità di collaborazione volto allo sviluppo di opere infrastrutturali in paesi terzi; incentivare le imprese italiane a operare sul mercato cinese e beneficiare del suo crescente bacino di consumatori.La Bri sta inoltre contribuendo all'aumento delle attività economiche e della presenza di cittadini cinesi lontano dal loro paese, anche in teatri instabili. È probabile che l’impegno di Pechino in tema di sicurezza in Medio Oriente, Africa e Mar Mediterraneo aumenterà in proporzione agli interessi della Repubblica Popolare, generando nuove opportunità di collaborazione con i paesi mediterranei, Italia inclusa, per il mantenimento della stabilità regionale.L’Italia dovrebbe riscoprire la sua natura marittima e svolgere un ruolo propositivo per valorizzare la sua posizione strategica di snodo tra il cuore del Mar Mediterraneo e il vicino Nord Europa. Subire in maniera passiva le attività della Repubblica Popolare nel Vecchio Continente potrebbe infatti trasformare le opportunità attuali in occasioni mancate.
A settembre 2017, la Cina ha completato la sua prima circumnavigazione dell’Artico. La rompighiaccio Xuelong (Dragone della neve), salpata il 21 luglio verso la Russia, ha portato a termine il transito per il passaggio a nord-ovest in Canada il 6 settembre. Nonostante la regione sia lontana circa 1.600 chilometri dai suoi confini, la Cina si definisce stato “vicino all’Artico”. Inoltre, nel documento ufficiale cinese intitolato Visione per la cooperazione marittima nella Belt and road initiative, il governo “immagina” una nuova diramazione del progetto attraverso questa parte di mondo.La Repubblica Popolare guarda con interesse all’Artico per molteplici ragioni: la cospicua presenza di risorse energetiche e minerarie, il commercio ittico, la ricerca scientifica, lo sviluppo di nuove rotte commerciali per ridurre la dipendenza da quella che transita per lo stretto di Malacca. Il progressivo scioglimento dei ghiacci, frutto del riscaldamento globale, potrebbe paradossalmente rendere questa rotta più facilmente percorribile in futuro.
Le vulnerabilità delle nuove vie della seta sono molteplici. Pur essendoci diversi enti coinvolti, manca un organismo istituzionale centralizzato che coordini le attività dei paesi che ne fanno parte e che quindi dia stabilità al progetto. Il vero motore dell’iniziativa è la Cina.In secondo luogo, le rotte della Bri coinvolgono parti del mondo in cui l’instabilità geopolitica è piuttosto elevata; per esempio la regione cinese del Xinjiang, ricca di gas e petrolio, popolata dalla minoranza etnica degli uiguri (musulmani di lingua turcofona). In questa regione, che confina con l’Asia Centrale ed è uno snodo fondamentale per le rotte che collegano la costa della Repubblica Popolare all’Occidente, è in corso una dura campagna antiterrorismo per contrastare la minaccia jihadista. Inoltre, si riscontra un certo malcontento per i metodi adottati dal governo centrale nella gestione dei rapporti con la popolazione e per la difficile convivenza tra gli uiguri e gli han (etnia maggioritaria del paese), i quali da qualche anno hanno consolidato la loro presenza nella regione. Dalla prospettiva di Pechino, stabilizzare il Xinjiang è indispensabile per lo sviluppo della Bri.A ciò si aggiunga che in Asia centrale, Medio Oriente ed Africa si riscontrano diversi paesi ad alta instabilità, per esempio Afghanistan, Siria, Iraq, Libia, Egitto. Sulla loro condizione incide la capacità del governo di controllare il paese, l’andamento economico, il benessere sociale, il rispetto dei diritti umani, il malcontento della popolazione, la presenza di cellule terroristiche, lo svolgimento di conflitti armati. Questi fattori possono complicare fortemente lo sviluppo delle nuove vie della seta.Infine, vi sono alcuni paesi che considerano le nuove vie della seta come uno strumento dell’espansionismo cinese, per esempio gli Usa, che leggono l’iniziativa di Pechino come uno strumento per consolidare i propri interessi all’estero. Tuttavia, Washington non considera la Bri come una minaccia vera e propria a causa delle vulnerabilità strutturali e geopolitiche che la caratterizzano. Soprattutto, in quanto prima potenza marittima al mondo, gli Stati Uniti possono intervenire su qualunque rotta commerciale che solchi gli oceani. In campo militare, Pechino non può ancora competere con Washington sul piano tecnologico, di budget e di esperienza.L’India è il più fervente oppositore delle nuove vie della seta. Delhi non vede di buon occhio in particolare lo sviluppo in corso del corridoio economico che collega Kashi nel Xinjiang al porto di Gwadar in Pakistan, suo storico nemico. L’approdo finale di questo progetto infrastrutturale è il porto di Gwadar, che si affaccia sull’Oceano Indiano. Recentemente, il segretario di Stato Usa Rex Tillerson ha ufficializzato l’asse tra Washington e Delhi, che potenzieranno i loro rapporti nei settori della difesa e dell’economia in chiave anti-cinese. In tale contesto è rilevante anche il ruolo del Giappone. Il paese del Sol Levante, storico avversario della Cina e alleato statunitense, sta accelerando il percorso di riforma della costituzione pacifista (eredità della Seconda guerra mondiale) per assumere una posizione più forte nel mar Cinese Meridionale e nell’oceano Indiano.
1. Zona economica speciale è una regione geografica (in sigla SEZ) nella quale, per attrarre investimenti stranieri con incentivi doganali e fiscali e con finanziamenti alle attività, vige una legislazione economica differente da quella della nazione alla quale appartengono. Fonte: Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/special-economic-zone_%28Lessico-del-XXI-Secolo%29/2. La Trans Pacific Partnership era l’area di scambio transpacifica proposta dagli Usa che includeva Canada, Messico, Perù, Cile, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Malaysia, Vietnam, Brunei, Singapore, ma non la Cina. La Tpp e la variante europea Ttip (Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti) erano stati immaginati da Obama per consolidare il ruolo degli Stati Uniti nella definizione degli standard commerciali mondiali ed evitare che se lo assumesse la Cina.
Fonte: Limes. http://www.limesonline.com/donald-trump-vuole-ritirare-gli-usa-dal-tpp/954343. Per Yves Lacoste «Quale che sia la sua estensione territoriale (planetaria, continentale, statale, regionale, locale) e la complessità dei dati geografici (rilievo, clima, vegetazione, ripartizione della popolazione e delle attività…), una situazione geopolitica si definisce, a un dato momento di una certa evoluzione storica, attraverso delle rivalità di potere di maggiore o minor rilevanza, e attraverso dei rapporti tra forze che occupano parti diverse del territorio in questione». Da Che cos’è la geopolitica, “Limes”, 1994.4. Unità equivalente a venti piedi, misura standard di volume nel trasporto dei container (S. Igaz, Container Turnover of Cosco Shipping Ports Increased by 10% in April 2017, “Maritime Herald”, 17/5/2017).