Matteo Messina Denaro “L’invisibile”. Un’UdA contro le mafie

Power Point

Biografia

Nato a Castelvetrano, in provincia di Trapani, Matteo era il quarto dei sei figli. Suo padre, Francesco Messina Denaro, coltivò per trent'anni i terreni della famiglia D’Alì Staiti, mentre suo fratello Salvatore lavorava nella Banca Sicula di Partanna, all'epoca il più importante istituto bancario privato siciliano, di cui i D'Alì-Staiti erano azionisti. Alla morte del padre, Matteo subentrò nell'attività agricola di famiglia. L'ascesa di Matteo in Cosa Nostra iniziò quando suo padre Francesco decise di schierarsi insieme al boss Mariano Agate al fianco di Totò Riina nella Seconda Guerra di Mafia, contro le famiglie palermitane che fino a quel momento avevano dominato l'organizzazione. In particolare, Matteo divenne fondamentale nel far nascere il sodalizio tra il Capo dei Capi e i Fratelli Filippo e Giuseppe Graviano.La famiglia dei Graviano era infatti fedele ai Bontate, ma dopo l'omicidio del boss Stefano il 23 aprile 1981, vennero sospettati di averlo tradito. Per questo motivo venne ucciso Michele Graviano il 7 gennaio 1982. Subito dopo, attraverso lo zio Filippo Guttadauro, Matteo Messina Denaro incontrò Giuseppe Graviano, di cui era quasi coetaneo, introducendolo alla corte di Totò Riina. Conclusa la Seconda Guerra di Mafia, i Messina Denaro divennero tra le famiglie più importanti di Cosa Nostra, tanto che di loro cominciò ad occuparsi anche Paolo Borsellino, nella sua veste di Procuratore capo di Marsala. Il 23 gennaio 1990 il giudice, sulla base delle indagini condotte dal commissario Calogero Germanà, chiese la sorveglianza speciale, il divieto di dimora e il sequestro di tutti i beni di "don Ciccio" quale "esponente di primo piano della mafia del Belice" ma il Tribunale di Trapani rigettò la richiesta. All'epoca il boss risultava ancora incensurato, finché nell'ottobre successivo Borsellino non emise un mandato di cattura nei suoi confronti per associazione mafiosa. Tuttavia, Francesco Messina Denaro si diede alla latitanza e, visti i suoi gravi problemi di salute, progressivamente il potere della famiglia passò a Matteo.

A sancire il graduale passaggio di consegne tra i Messina Denaro fu anche la partecipazione di Matteo alle varie riunioni che si tennero alla fine del 1991 in cui la Cupola di Cosa Nostra decise la linea di guerra totale allo Stato.
Quelle riunioni, passate alla storia come "le riunioni di Enna", sono quelle in cui Riina spiegò ai suoi che era arrivato il momento non solo di punire i nemici storici di Cosa nostra, ma pure gli ex-amici che avevano tradito le promesse sul Maxiprocesso di Palermo. In quelle riunioni il Capo dei Capi disse anche un'altra cosa: gli omicidi sarebbero stati rivendicati usando la firma della Falange Armata, una sigla usata già l'anno prima per rivendicare l'omicidio dell'educatore Umberto Mormile, ucciso però dalla 'ndrangheta, nonché per rivendicare i delitti della Banda della Uno Bianca. Su chi suggerì al Capo dei Capi di usare quella sigla oscura, ancora oggi non vi sono certezze. Matteo Messina Denaro condivise in pieno la linea di Totò Riina, tanto da essere messo a capo, insieme a Giuseppe Graviano, del commando mafioso che doveva uccidere Giovanni Falcone a Roma, dove il giudice, a capo degli Affari penali del Ministero della Giustizia, girava con una scorta molto ridotta. Tuttavia, i boss vennero richiamati in Sicilia, dove si optò per i 500 kg di tritolo della Strage di Capaci. Secondo il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza fu in quel momento che i propositi stragisti non fossero solo opera di Cosa Nostra: «la genesi di tutta questa storia è quando non si uccide più Falcone a Roma con quelle modalità e si inizia quella fase terroristica mafiosa, da lì non è solo Cosa nostra».
Dopo l'arresto del Capo dei Capi, il 15 gennaio 1993, Messina Denaro fu tra quelli a favore della continuazione delle Stragi. Al futuro collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori spiegò che la strategia stragista aveva come principale obiettivo quello di costringere lo Stato a scendere a patti.

Dopo le Stragi di Capaci e Via D'Amelio, Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro decisero che a morire doveva essere anche Calogero "Rino" Germanà, all'epoca commissario di Mazara del Vallo che aveva svolto le indagini alla base del mandato di cattura nei confronti del padre di Matteo. Non solo: Germanà aveva condotto diverse indagini sul rapporto tra mafia e massoneria, motivo per cui cominciava a dare fastidio ad ambienti anche esterni a Cosa nostra. Verso le 14:15 del 14 settembre 1992 il commando mafioso composto da Matteo, alla guida, da Giuseppe Graviano e da Leoluca Bagarella entrò in azione. Il commissario tuttavia riuscì a salvarsi, scappando sulla spiaggia, in mezzo ai bagnanti. Un altro omicidio di cui ebbe responsabilità Messina Denaro fu quello di Antonella Bonomo, la cui unica colpa fu quella di essere la compagna di Vincenzo Milazzo, capomafia di Alcamo, acerrimo rivale di Riina. Il 13 luglio 1992 Giovanni Brusca uccise il boss a colpi di pistola, per poi occuparsi il giorno dopo della compagna, strangolata insieme a Leoluca Bagarella con una corda. Nonostante implorasse i killer di risparmiarla, essendo incinta, questi non ebbero pietà. Un altro omicidio, particolarmente efferato, cui Matteo Messina Denaro ha legato il suo nome è quello di Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso e collaboratore di giustizia Mario Santo Di Matteo. Quando nel giugno 1993 Di Matteo iniziò a collaborare con la giustizia, Messina Denaro, Bagarella e Graviano proposero di uccidere suo figlio Giuseppe. Brusca, tuttavia, si limitò in un primo momento a rapirlo, avendolo visto crescere. Messina Denaro autorizzò la detenzione del ragazzino nel trapanese, in una villetta a Castellamare del Golfo, dove poi venne sciolto nell'acido quasi due anni dopo.

Il 2 giugno 1993 la procura di Trapani emise nei confronti di Matteo Messina Denaro un mandato di cattura con l’accusa di associazione mafiosa, omicidio, strage, detenzione e porto di materiale esplosivo, furto e tanti altri reati minori. Da lì iniziò la sua latitanza. Il suo ruolo dentro Cosa nostra cominciò ad emergere l'anno successivo, con l'operazione Petrov, scattata nel marzo 1994 dalle dichiarazioni del collaboratore Pietro Scavuzzo, e con l'operazione Omega, del gennaio 1996, nata dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Antonio Patti, Salvatore Giacalone, Vincenzo Sinacori e Giuseppe Ferro, i quali ricostruirono più di vent'anni di omicidi avvenuti nel trapanese. Quando il processo Omega si concluse, nel 2000, Messina Denaro venne condannato in contumacia alla pena dell'ergastolo.
Quando il padre Francesco venne stroncato da un infarto durante la latitanza nel dicembre 1998, Matteo prese ufficialmente le redini del mandamento di Castelvetrano, ricoprendo la carica di rappresentante della provincia di Trapani in Cosa nostra. Rispetto agli altri mafiosi siciliani, il boss sviluppò una spiccata propensione per gli affari, tanto da guadagnarsi l'epiteto di "affarista" da parte di Totò Riina.

Dopo l'arresto di Riina e dei Fratelli Graviano, tramontato quindi definitivamente l'orientamento stragista in Cosa nostra, Matteo riconobbe l'autorità di Provenzano e sposò la sua linea della "sommersione". Quando il boss corleonese venne arrestato nel 2006, gli inquirenti ritrovarono diversi pizzini tra i due, nei quali il boss trapanese si firmava sempre come "suo nipote Alessio". Tra questi, ve ne sono alcuni assai significativi. In uno affermò di riporre «fiducia, onestà e capacità, quello che prima per me era T.T.R.», sigla che stava per Totò Riina. In un altro sostenne di sposare invece la nuova linea di Provenzano:
«Prima di passare al nocciolo del discorso desidero dire a lei che io sono il dialogo e la pacificazione per come lei mi ha chiesto, ed io rispetto il suo volere per come è sempre stato. So che lei non ha bisogno di alcuna raccomandazione perché è il nostro maestro ma è il mio cuore che parla e la prego di stare molto attento, le voglio tanto bene. Con immutata stima e l’affetto di sempre, Suo nipote Alessio».

La latitanza di Matteo Messina Denaro è costellata da diversi tentativi di arrestarlo, bruciati per una ragione o per l'altra. Proprio quando nella corrispondenza con Provenzano emerse il ruolo di Antonio Vaccarino, insegnante ed ex-sindaco di Castelvetrano, la Procura di Palermo scoprì che dal 2004 l'ex-sindaco era stato arruolato dal SISDE per cercare di catturare il boss trapanese. Quest'ultimo si firmava sempre Alessio, mentre l'insegnante si firmava "Svetonio". L'ex-sindaco riuscì a stabilire un lungo e proficuo contatto, proponendogli diversi investimenti in appalti pubblici. Il 16 agosto 2006 la Procura di Palermo richiese ufficialmente a Mario Mori, all'epoca direttore del SISDE, di «voler trasmettere ogni informazione in ordine all’esistenza di rapporti tra Antonio Vaccarino e il personale del servizio». Sette giorni dopo arrivò la conferma del ruolo di Vaccarino in quell'operazione.
Interrogato dai pm, l'insegnante confermò tutto, aggiungendo di aver sempre agito sotto attente istruzioni del SISDE. Ma la diffusione della collaborazione del Vaccarino da parte del quotidiano la Repubblica fece saltare l’operazione del SISDE e la probabile cattura di Messina Denaro. Dopo che il biennale scambio epistolare divenne pubblico, Vaccarino ricevette una lettera firmata "M. Messina Denaro", in cui il boss affermava: «ha buttato la sua famiglia in un inferno […] la sua illustre persona fa già parte del mio testamento […] in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il debito che ho nei suoi confronti».
Due anni dopo, nel giugno 2009, l'indagine Golem portò all'arresto di tredici persone tra mafiosi e imprenditori trapanesi, accusati di favorire la latitanza di Matteo Messina denaro, non solo fornendogli documenti falsi ma anche gestendo per conto del boss estorsioni e traffico di stupefacenti della provincia. Il 15 marzo 2010 scattò "Golem II" e vennero arrestate a Castelvetrano altre 19 persone, accusate di aver compiuto estorsioni e incendi dolosi per conto di Messina Denaro ai danni di imprenditori e politici locali; tra gli arrestati, figurarono anche il fratello del latitante, Salvatore Messina Denaro, e i suoi cugini Giovanni e Matteo Filardo, nonché l'ottantenne Antonino Marotta, definito "il decano della mafia trapanese", in quanto ex-membro della banda di Salvatore Giuliano.

Il 16 gennaio 2023, Messina Denaro è stato arrestato dai Carabinieri del ROS mentre si trovava presso la clinica privata La Maddalena a Palermo, nel quartiere San Lorenzo. Il boss trapanese era in procinto di effettuare, sotto il falso nome di Andrea Bonafede, una seduta di chemioterapia, alla quale era sottoposto periodicamente a causa di un tumore al colon, per il quale era stato operato nel 2021 in un ospedale di Marsala. Durante la conferenza stampa, i Carabinieri del ROS hanno spiegato che Matteo Messina Denaro è stato bloccato in strada, nei pressi di un ingresso secondario della clinica La Maddalena. Sottolineando che il boss, contrariamente a quanto diffuso da alcuni organi di stampa, non ha tentato la fuga, né opposto alcuna resistenza, anzi "si è subito dichiarato, senza neanche fingere di essere la persona di cui aveva utilizzato l’identità. Con lui è stato arrestato anche l'autista, Giovanni Luppino, con l'accusa di favoreggiamento.