Donne e uomini che hanno percepito il peccato

Questo progetto intende condurre l'alunno di terza a percepire il peccato quale forma di egoismo, di chiusura verso l'altro. In questo senso, far comprendere che, colui che vive in questo modo, non si realizza come uomo chiamato da Dio a costruire il bene e, allo stesso tempo, non fa vivere pienamente gli altri; distrugge le aspirazioni del prossimo. Il progetto, articolato mediante la visione di alcuni video, vuol mettere in risalto le figure di Giuseppe Impastato e di don Giuseppe Diana, Paolo Borsellino e Rosario Livatino: uomini ribelli a qualsiasi comportamento prepotente. Commentando le lori azioni, i docenti possono far comprendere agli alunni che è possibile opporsi al peccato, alle prevaricazioni, riuscendo, nei piccoli gesti quotidiani, a fare il proprio dovere, con generosità e volontà. Nota bene: questo progetto può essere integrato con il power point "contro il male" del materiale didattico classi terze.


La testimonianza di Rita Atria

Lei aveva 18 anni, lui, 52. Lei era una picciridda di una famiglia di Cosa nostra, lui il giudice del pool antimafia, lei era cresciuta a Trapani, lui a Palermo. Lui è stato ucciso dalla mafia, lei pure. Sono morti a una settimana di distanza l'uno dall'altra, Paolo Borsellino e Rita Atria, il giudice dilaniato dalla bomba in via d'Amelio, la ragazza gettandosi dal sesto piano di viale Amelia. Uno a Palermo l'altra a Roma. Due vite che la lotta alla mafia ha intrecciato indistricabilmente e che insieme sono finite.

Rita era cresciuta in una masseria nei pressi di Contrada Camarro, a Partanna, paese contadino a pochi chilometri da Trapani. Suo padre Vito faceva il pastore, ma Rita sapeva che era qualcosa di più, perché in casa si facevano strani discorsi, nomi importanti. Don Vito era un uomo d'onore e una mattina di novembre del 1985, venne trovato ammazzato nelle vigne dell'agro trapanese. Morto il capofamiglia, il comando di certi affari passò a suo figlio Nicolò, che al contrario del padre aveva lasciato le campagne e aveva aperto una pizzeria a Montevago, a pochi chilometri da Agrigento. È lì che la moglie Piera lo trovò steso nel suo sangue il 24 giugno del 1991, ucciso a colpi di lupara da altri uomini d'onore della Valle del Belice.

Vedova di mafia a 24 anni, con una figlioletta di tre, Piera aveva due scelte. Accettare la vita di solitudine monacale riservata alla moglie dei defunti boss e vivere con la carità di Cosa nostra o prendere altre vie. Lasciarsi alle spalle una vita di violenza e prevaricazione che non aveva scelto, in cui si era trovata giovanissima e nelle cui strade accidentate non voleva che crescesse la sua piccola Vita Maria. Allora fece una cosa veramente rivoluzionaria: infilò la porta di casa e andò dritta in caserma, consapevole che la sua vita per come era stata fino ad allora sarebbe finita. Davanti ai carabinieri accusò gli assassini del suocero, quelli del marito, rivelò segreti e affari loschi della sua terra. Rita, che allora aveva solo diciassette anni, rimase colpita da quel gesto di rottura e sentì che era quello l'esempio da seguire.

Così decise che anche lei avrebbe collaborato con la giustizia dicendo tutto quello che sapeva. Giovane e timida, inesperta, ma sorprendentemente risoluta, anche lei sarebbe entrata nel programma di protezione testimoni. Tale era Rita, una ‘testimone'. Nei diciassette anni della sua giovane vita non aveva commesso nessun reato, aveva assistito a dei discorsi, però, aveva ascoltato nomi, poteva aiutare i giudici a ricostruire gli scenari criminali di quella valle selvaggia e violenta. Cosa avrebbe avuto in cambio? Avrebbe consegnato la sua vita, rinunciato al suo nome, alla sua famiglia, alla sua casa. Per Rita, però, quello era un sacrificio a cui era disposta, per fare la cosa giusta.

Lei e sua cognata vennero affidate a Paolo Borsellino. Quando fu davanti al giudice provò un po' di timore, ma quando ebbe il coraggio di sollevare gli occhi incrociando quelli del magistrato e vide quelli di lui dietro al fumo del sigaro, ogni paura svanì. Con il tempo lui imparò a guardarla con tenerezza e affetto. Rita diventò la sua ‘Rituzza‘, la sua ‘picciridda' e al suo fianco diventò una giovane donna. La trasferirono a Roma insieme a Piera, in un palazzone di sei piani nel quartiere Tuscolano, da dove la ragazza continuò a studiare per gli esami di maturità. La madre Anna la coprì di insulti e la ripudiò.

Quando si avvicinò la data degli esami chiese il permesso di tornare in Sicilia. Si presentò in aula scortata da quattro militari armati, di fronte a quella scena nessuno dei professori capì esattamente chi fosse quella ragazza fin quando non lessero il suo tema. Rita consegnò due pagine sull‘attentato che aveva ucciso Giovanni Falcone, parlando di lotta alle mafie e di speranza. Agli orali un professore le chiese a cosa fosse dovuta la scorta armata, e lei rispose che era un segreto, ma presto lo avrebbe saputo. Pochi giorni dopo un blitz mise le manette a 31 mafiosi della frangia trapanese di Cosa nostra. Erano i frutti del lavoro dei giudici Alessandra Camassa, della procura di Marsala e Morena Plazzi, della procura di Sciacca, a cui Borsellino aveva affidato l'inchiesta

I potentati della valle del Belice cominciavano a cadere grazie al lavoro di quattro donne, due magistrati e due giovani testimoni. Rita aveva superato gli esami, aveva compiuto 18 anni, era passata sotto la protezione  dell'Alto Commissariato e nel giudice di Palermo aveva trovato un modello, un riferimento morale e affettivo. Poi, una domenica di luglio Paolo andò a trovare sua madre, Rita lo seppe dalla tv: il telegiornale trasmise le immagini della strada in fiamme.

La domenica successiva, intorno alle 17, la stessa ora in cui era saltato in aria il suo giudice lasciandola sola, Rita si lanciò dal sesto piano di viale Amelia. Pochi giorni prima aveva detto addio alla cognata. Alla madre, che avrebbe distrutto con un martello la lapide della tomba di sua figlia, Rita non riservò alcun saluto.

La testimonianza di Peppino Impastato

La storia di Peppino è straordinaria non solo perché ai tempi fu uno dei pochi a denunciare le realtà mafiose che in molti ancora fingevano di non vedere, ma perché lui stesso proveniva da una famiglia affiliata al crimine organizzato ed ebbe il coraggio di fare una scelta differente.Giuseppe Impastato nacque il 5 gennaio 1948 a Cinisi, in provincia di Palermo, da Felicia Bartolotta e Luigi Impastato.La famiglia Impastato era molto ben inserita nell'attività mafiosa che stritolava la provincia del capoluogo siciliano (i cosiddetti "amici degli amici"): la sorella di Luigi aveva sposato il boss Cesare Manzella, mentre lo stesso papà Luigi era un amico di Gaetano Badalamenti, il capomafia della zona che, come soleva dire lo stesso Peppino, abitava «a cento passi» da casa sua.

Nel 1977 fondò anche un'emittente radiofonica, Radio Aut, dove lo stesso Peppino conduceva una trasmissione in cui denunciava i traffici loschi di Cosa Nostra (la mafia siciliana) e prendeva in giro politici e malavitosi.Le parole di Peppino aprirono gli occhi a molti scettici riguardo le infiltrazioni mafiose in ogni ambito della vita sociale (nell'amministrazione pubblica, nella sanità, nell'edilizia) e tanti siciliani trovarono finalmente il coraggio di unirsi alla sua battaglia.

Il 9 maggio 1978 Peppino Impastato venne ritrovato nei pressi di un binario ferroviario. Il corpo, quasi irriconoscibile, era stato prima sfigurato dai sassi e poi dilaniato da una carica di esplosivo. Inizialmente le indagini parlarono di un atto terroristico finito male e addirittura di suicidio, ma tutti sapevano che la mano dietro all'efferato omicidio era quella di Cosa Nostra.

Dopo la morte di Peppino, la madre Felicia e il fratello Giovanni si ribellano ai lacci che li legavano all'ambiente mafioso e presentarono alcune prove che riaprirono le indagini e riconducevano la responsabilità del delitto proprio a Don Badalamenti, l'amico del padre di Peppino.Nel novembre del 1997, con quasi vent'anni di ritardo, venne emesso un ordine di cattura per Gateano Badalamenti, incriminato come mandante degli assassini. La condanna arrivò solo nel 2002: Badalamenti e il suo vice, Vito Palazzolo, furono condannati rispettivamente all'ergastolo e a 30 anni di reclusione (Palazzolo fu condannato nel 2001). Entrambi morirono poco dopo.Ora Peppino non c'è più, ma la sua attività ha ispirato film, libri e canzoni, innalzandolo ad un'icona nella lotta alla cultura mafiosa che ancora oggi infesta troppe zone del nostro Paese.

La testimonianza di don Peppe Diana

Giuseppe Diana è stato un sacerdote cattolico, parroco di Casal di Principe (provincia di Caserta) che si è battuto contro la camorra, denunciando i traffici illeciti di sostanze stupefacenti, le tangenti sui lavori edili, gli scontri violenti tra le fazioni della criminalità organizzata del suo paese. Egli ha pagato con la vita la propria coraggiosa attività: è stato assassinato a soli trentacinque anni nella sacrestia della sua Chiesa, mente si accinge a celebrare la messa.

Conosciuto da tutti conosciuto come “Don Peppino, si batte contro la criminalità organizzata della sua città, nel periodo in cui imperversano in Campania i casalesi, camorristi legati al boss Francesco Schiavone (detto “Sandokan”), infiltrati negli enti locali, nell’imprenditoria. Contro questo stato di cose, Giuseppe scrive una lettera, intitolata Per amore del mio popolo, diffusa nel giorno di Natale del 1991 in tutte le chiese della sua diocesi. Lo scritto un manifesto a sostegno dell’impegno contro la camorra, definita in esso come una forma di terrorismo, che attraverso la paura impone le proprie inaccettabili leggi e clima di inaudita violenza.

"La Camorra oggi è una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella società campana. I camorristi impongono con la violenza, armi in pugno, regole inaccettabili: estorsioni che hanno visto le nostre zone diventare sempre più aree sussidiate, assistite senza alcuna autonoma capacità di sviluppo; tangenti al venti per cento e oltre sui lavori edili, che scoraggerebbero l’imprenditore più temerario; traffici illeciti per l’acquisto e lo spaccio delle sostanze stupefacenti il cui uso produce a schiere giovani emarginati, e manovalanza a disposizione delle organizzazioni criminali; scontri tra diverse fazioni che si abbattono come veri flagelli devastatori sulle famiglie delle nostre zone; esempi negativi per tutta la fascia adolescenziale della popolazione, veri e propri laboratori di violenza e del crimine organizzato.

E’ oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La Camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelleamministrazioni periferiche é caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La Camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc; non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, dipromozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.

Il nostro impegno profetico di denuncia non deve e non può venire meno.

Appello. Le nostre “Chiese hanno, oggi, urgente bisogno di indicazioni articolate per impostare coraggiosi piani pastorali, aderenti alla nuova realtà; in particolare dovranno farsi promotrici di serie analisi sul piano culturale, politico ed economico coinvolgendo in ciò gli intellettuali finora troppo assenti da queste piaghe”. Ai preti nostri pastori e confratelli chiediamo di parlare chiaro nelle omelie ed in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa. Alla Chiesa che non rinunci al suo ruolo “profetico” affinché gli strumenti della denuncia edell’annuncio si concretizzino nella capacità di produrre nuova coscienza nel segno della giustizia, della solidarietà, dei valori etici e civili (Lam. 3,17-26). Tra qualche anno, non vorremmo batterci il petto colpevoli e dire con Geremia “Siamo rimasti lontani dalla pace… abbiamo dimenticato il benessere… La continua esperienza del nostro incerto vagare, in alto ed in basso, dal nostro penoso disorientamento circa quello che bisogna decidere e fare… sono come assenzio e veleno”.

Giuseppe, però, paga purtroppo il suo coraggioso gesto con la vita: la mattina del 19 marzo 1994, infatti, un assassino lo raggiunge, mentre si prepara a dir messa, nella sagrestia della sua chiesa,  e gli spara quattro colpi di pistola, mettendo segno una vera e propria esecuzione camorristica.

In memoria di Don Peppino è nato, il 25 aprile 2006 il “Comitato Don Peppe Diana” a Casal di Principe; nel 2010 invece è a lui intitolata una scuola il liceo scientifico di Morcone (in provincia di Benevento. A vent’anni dalla morte di Giuseppe, nel 2014, è stata trasmessa su Raiuno la miniserie televisiva Per amore del mio popolo, a lui ispirata. Nello stesso anno, è nata a Termoli la Scuola di Legalità, intitolata alla memoria di don Giuseppe Diana e fondata e diretta da Vincenzo Musacchio. Al sacerdote è stato anche dedicato un documentario da Rai Storia, dal titolo Non tacerò, la storia di don Peppe Diana.

La testimonianza di Rosario Livatino

Rosario Angelo Livatino nasce a Canicattì, in provincia e diocesi di Agrigento, il 3 ottobre 1952, unico figlio di Vincenzo, funzionario dell’esattoria comunale di Canicattì, e di Rosalia Corbo. Negli anni del liceo studia intensamente, inoltre s’impegna nell’Azione Cattolica. Si laurea in giurisprudenza a Palermo nel 1975. A ventisei anni, nell’estate del 1978, fa il suo ingresso in Magistratura. Dopo il tirocinio presso il Tribunale di Caltanissetta, il 29 settembre 1979 entra alla Procura della Repubblica di Agrigento come Pubblico Ministero. Per la profonda conoscenza che ha del fenomeno mafioso e la capacità di ricreare trame, di stabilire importanti nessi all’interno della complessa macchina investigativa, gli vengono affidate delle inchieste molto delicate. E lui, infaticabile e determinato, firma sentenze su sentenze: è entrato ormai nel mirino di Cosa Nostra. Il 21 settembre 1990 mentre sta percorrendo, come fa tutti i giorni, la statale 640 per recarsi al lavoro presso il Tribunale di Agrigento, viene raggiunto da un commando di quattro sicari e barbaramente trucidato. L’Italia scopre nel suo sacrificio l’eroismo di un giovane servitore dello Stato che aveva vissuto tutta la propria vita alla luce del Vangelo. La sua beatificazione è stata celebrata nella cattedrale di San Gerlando ad Agrigento, il 9 maggio 2021.

La testimonianza di Paolo Borsellino

Il giudice  siciliano, componente  del pool antimafia, venne assassinato in via D’Amelio a Palermo il 19 luglio 1992, insieme a 5 agenti della scorta. A distanza di 26 anni, la sua morte è ancora avvolta da misteri, come quello dell’agenda rossa, e depistaggi Paolo Borsellino è stato uno dei magistrati più importanti del pool antimafia, un simbolo della  lotta  a Cosa Nostra, che ha combattuto per anni prima di essere ucciso insieme alla sua scorta in un attentato, il 19 luglio 1992, in via D’Amelio, a Palermo. Insieme all’amico e collega Giovanni Falcone, anch’egli ucciso dalla mafia pochi mesi prima, è considerato una delle figure di spicco della guerra alla criminalità organizzata in Sicilia. La sua morte, anche a distanza  di   anni,  è  ancora  avvolta da misteri. Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si reca insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove vive sua madre. Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa 100 kg di tritolo a bordo esplode, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traia.