Per la capillarità e l’aggressività del contagio, ma anche per gli effetti economici e sociali che sta determinando, la pandemia da Covid-19 ha rappresentato uno shock profondo nelle coscienze di tutti. Imponendoci sacrifici e restrizioni, ci ha portato via la percezione di uno spazio e di un tempo “liberi”; ha profondamente condizionato la libertà di muoverci, viaggiare e progettare. Ora che si allentano i vincoli e ci apprestiamo a una cauta “ripartenza”, il tema della libertà è diventato centrale nel dibattito pubblico.
Di fronte all’introduzione di dispositivi di controllo e all’ipotesi dell’obbligo vaccinale alcuni invocano il principio della libertà e dell’autodeterminazione dell’individuo, denunciando la prevaricazione del potere pubblico. E in ambito filosofico, rappresentanti della corrente “biopolitica” ritengono che l’evento pandemico possa accelerare la fine delle democrazie liberali (fondate sulla garanzia dei diritti individuali), le quali cederanno il posto a un nuovo “dispotismo” che, con il pretesto della “sicurezza” o della “salute pubblica”, metterà in atto un progressivo e volontario asservimento del cittadino.
La pandemia, insomma, “dà da pensare”, interpellando sia il senso comune sia la filosofia, la quale, per dirla con Hegel, «è il proprio tempo appreso con il pensiero».
Quale libertà possiamo e dobbiamo allora chiamare in causa per decifrare le sfide del presente? La riflessione filosofica può aiutarci a restituire rigore alle argomentazioni del dibattito pubblico e a cogliere la complessità delle questioni in gioco.
Secondo Benjamin Constant esistono almeno due libertà: quella «degli antichi» e quella «dei moderni». La prima designa la possibilità dell’individuo di partecipare alla vita della comunità; la seconda indica la difesa della sua sfera privata dalle intromissioni del potere pubblico.
Libertà di e libertà da, per usare delle formule consolidate: nel primo senso l’uomo è libero di partecipare all’orizzonte del “noi”; nel secondo senso è libero da costrizioni e interferenze altrui, nello spazio privato del suo “io”.
Come vedremo, la questione della libertà si colloca nella tensione dialettica di questi due pronomi personali - io e noi - e nella possibilità di una loro sintesi. Come va declinata la libertà? Chi ne è il soggetto o detentore? È concepibile un “io” senza l’orizzonte del “noi” in cui si situa? E come conciliare la libertà di ciascuno con quella di tutti?
Come è noto, la tradizione liberale, rivendicando, di fronte al potere dello Stato, i diritti naturali e inviolabili dell’individuo sul proprio corpo e sulla propria coscienza, ha promosso la «libertà dei moderni»; il pensiero democratico ha cercato di recuperare quella «degli antichi». In realtà, l’ambivalenza semantica del termine “libertà” è già presente nel mondo antico. Nell'età classica l'individuo realizza la sua esistenza (è “uomo” e uomo “libero”) nella pòlis. In un certo senso l’ “io” è interamente risolto nel “noi” della comunità politica. Con il declino delle pòleis, l'io perde il legame con la sua comunità e si percepisce nella sua solitaria individualità entro l'oikoumene, la totalità del mondo abitato.
Simbolo della prima libertà è Socrate: il filosofo della piazza, del colloquio comune, della vita associata; interprete della seconda è Epicuro: il filosofo del «vivi nascosto!», alieno dalla politica, isolato nel suo Giardino, lontano dall’ “assembramento” della piazza.
Che la libertà possa essere concepita soltanto come tutela dell’indipendenza dell’individuo (della sua inviolabile e assoluta sovranità su se stesso) lo nega anche la tradizione liberale, che trova in John Stuart Mill una delle voci più autorevoli e influenti. Nel celebre Saggio sulla libertà (1859), il filosofo inglese cerca di determinare «i rapporti di coartazione e controllo della società sull’individuo, sia che li eserciti mediante la forza fisica, sotto forma di pene legali, sia mediante la coazione morale dell’opinione pubblica». Dopo aver chiarito che «su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo, l’individuo è sovrano», Mill aggiunge: «L’umanità è giustificata, individualmente o collettivamente, a interferire sulla libertà d’azione di chiunque soltanto al fine di proteggersi: il solo scopo per cui si può legittimamente esercitare un potere su qualunque membro di una comunità civilizzata, contro la sua volontà, è per evitare danno agli altri» (Saggio sulla libertà, trad. it. di S. Magistretti, Il Saggiatore, Milano 2014, p.28).Mill difende la libertà, per ognuno, di autodeterminarsi, ma al tempo stesso spiega come la libertà non possa essere evocata per legittimare comportamenti pregiudizievoli per la libertà degli altri. Per il filosofo anglosassone, siamo (e dobbiamo rimanere) liberi, ma non possiamo utilizzare il principio di libertà per giustificare la perdita della libertà: «non può essere la libertà a privarsi della libertà».Tutti i teorici del liberalismo concordano su questo punto. Il filosofo statunitense John Ralws, nel fortunato libro A Theory of Justice (1973), offre una riformulazione del principio di Stuart Mill. Il primo principio di una società giusta, sostiene Rawls, è quello che prescrive la più ampia libertà per tutti: «ogni persona ha un eguale diritto al più esteso sistema di libertà fondamentali, compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti gli altri». In un regime liberal-democratico, dunque, la libertà (se vuole essere una libertà “eguale”) può essere ristretta a vantaggio della libertà stessa. Le limitazioni al principio di libertà sono consentite a patto che non colpiscano particolari gruppi o settori della società: ammettere che alcune persone possano avere maggiori libertà di altre significherebbe, infatti, giustificare una società divisa in liberi e meno liberi, cioè una società razzista o discriminatoria, che non sarebbe certamente una società giusta.
Per quanto sia necessario, in un orizzonte liberale, dare (oppure rifiutare) il proprio consenso a un trattamento medico, quando si tratta di salvaguardare la salute pubblica, non si è più di fronte a una (semplice) questione di libertà individuale, ma a un complesso rapporto tra libertà, responsabilità e bene comune.
Il fatto di essere parte di una comunità implica l’accettazione di una limitazione delle libertà individuali. Se, ad esempio, si è naturisti, si è obbligati a frequentare determinate spiagge, perché la libertà di girare senza abiti non può limitare la libertà di chi coltiva un senso del pudore diverso. La libertà rivendicata da chi decide di non vaccinarsi (per motivi personali e culturali, non di salute) interferisce con la libertà di non ammalarsi di altri (il diritto alla salute e alla vita) e con altre forme di libertà minacciate dalle restrizioni sociali determinate dall’aumento dei contagiati e dalla indisponibilità delle strutture ospedaliere.
A ben vedere, dunque, una complessa tensione dialettica (ai limiti dell’ossimoro) attraversa la libertà quando la si istituisce quale principio assoluto. La libertà è relativa rispetto a se stessa, si auto-impone cioè delle limitazioni per salvaguardare se stessa. Lo stesso Rousseau, padre della democrazia, ritiene che questo regime abbia «il diritto di costringere gli uomini ad essere liberi». Nella sua prospettiva, la libertà non è altro che «l'obbedienza alla legge che ci siamo prescritti».
Anche la lezione di un altro “padre nobile” del liberalismo, Isaiah Berlin è, in tal senso, istruttiva. Nel suo saggio intitolato Due concetti di libertà (1958) mette in guardia il lettore da facili semplificazioni, sottolineando la questione della pluralità e, per qualche verso, anche dell'incompatibilità di diverse forme di libertà.
La libertà di non dover sottostare a regole precauzionali e igieniche codificate può scontrarsi con la libertà di un esercente di riaprire la propria attività in sicurezza. La libertà di non rivelare informazioni personali su contatti e spostamenti può contrastare con la libertà di molti di prevenire l'insorgenza di nuovi focolai del virus. Quella che Berlin definisce la «libertà negativa» (il non essere impediti da nessun altro nelle proprie scelte, la libertà dalla coercizione e perfino dall'intromissione nel proprio foro interiore) esige alcune restrizioni che vanno accettate come un compromesso per altri benefici, quali la pace, la sicurezza, la salute, ecc. La libertà, secondo Berlin, deve sempre fare i conti con altri diritti e valori, meritevoli, talvolta, di una tutela ancora maggiore.
Se dai principi filosofici volgiamo lo sguardo ai fondamenti giuridici della questione, ritroviamo lo stesso intreccio dialettico tra libertà e responsabilità, tutela dei diritti individuali e salvaguardia della salute quale bene comune.
Di limpida chiarezza è, in tal senso, l’art. 32 della Costituzione: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. […]». La Costituzione afferma il pieno diritto all’autodeterminazione e anche il diritto al rifiuto di qualsiasi trattamento sanitario (anche di quelli salvavita), come abbiamo visto in notissimi casi come quello di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro. Ma, nello stesso tempo, attribuisce legittimità a trattamenti sanitari obbligatori, ponendo un solo limite: quello di farlo per legge, quindi con un intervento del parlamento. La Repubblica si occupa della salute sia per tutelare un diritto dell’individuo (che può rifiutare le cure), sia per assicurare un interesse della collettività. Si tratta di due interessi costituzionalmente protetti, l’uno individuale e l’altro collettivo, il cui bilanciamento è affidato al legislatore. Del resto, nel nostro ordinamento, esiste già l’obbligatorietà per alcuni vaccini (decreto-legge 73/2017, convertito in legge 119/2017). Malattie una volta epidemiche, come la poliomielite e il morbillo, sono state quasi completamente sradicate, non solo in Italia, grazie a vaccinazioni obbligatorie.
La facoltà dello Stato di imporre obblighi del genere trova un altro fondamento nel principio solidaristico enunciato dall’art. 2, che «richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» e funge da contraltare al riconoscimento e alla garanzia, da parte della Repubblica, dei «diritti inviolabili dell’uomo». Quando richiede la tutela di un bene comune, lo Stato liberale si configura come Stato sociale, legittimando la sua ingerenza nella libertà del singolo.
Lo stesso impianto concettuale troviamo nella legislazione internazionale. La Corte europea dei diritti umani (Cedu), con la recente sentenza 116 dell’8 aprile 2021, ha riconosciuto la vaccinazione obbligatoria come «necessaria in una società democratica». Essa rappresenta sicuramente un’ingerenza nel «diritto al rispetto della vita privata», tutelata dall’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Pur tuttavia non ogni interferenza del potere pubblico nella sfera privata del cittadino è vietata da questo articolo:1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.La sentenza 116/2021 riguardava un obbligo vaccinale per i bambini nella Repubblica Ceca ma ha consentito alla Corte europea dei diritti umani di ribadire che è legittimo l’obbligo vaccinale se risponde a un «urgente bisogno sociale», se le ragioni addotte dalle autorità nazionali per giustificarla sono «pertinenti e sufficienti» e se le misure sono proporzionate allo scopo legittimo perseguito.
La parola “libertà”, dunque, contiene una complessa ambiguità semantica frutto di una lunga sedimentazione. Un suo uso disinvolto può essere rischioso. Che la parola fosse uno strumento insieme potentissimo e potenzialmente pericoloso lo aveva compreso il maestro di retorica Gorgia: «La parola è un potente sovrano, che, con corpo piccolissimo e del tutto invisibile, compie opere assolutamente divine». Scavare nelle parole, sondare le opinioni, illuminare le ambiguità del linguaggio: la filosofia non può rinunciare a questa sua funzione costitutiva soprattutto in una società dominata dai social media, nella quale le parole vanno “maneggiate con cura” potendo accendere rabbia, entusiasmi e fraintendimenti.