Una buona notizia per tutti i paladini dello studio della storia viene dalla circolare ministeriale del 25 novembre 2019, con la quale si è disposto che almeno una delle tracce della tipologia B della prima prova scritta di italiano all’Esame di stato debba riguardare l’ambito storico. Tale scelta – leggiamo nella circolare - «è motivata dalla consapevolezza che la storia costituisce disciplina fondamentale nella formazione degli studenti di tutti i percorsi di studio e che vada quindi valorizzata anche nell’ambito dell’esame di stato conclusivo del secondo ciclo di istruzione».
Questo provvedimento “emenda” la normativa per l’esame introdotta nel 2018, che prevedeva sì una prova di storia, ma solo come possibile scelta. Una decisione che aveva innescato un acceso dibattito, culminato in un manifesto-appello, “La storia è un bene comune”, lanciato con largo seguito da Andrea Giardina, Liliana Segre e Andrea Camilleri nell’aprile 2019. L’appello conteneva una decisa rivendicazione del valore formativo e civile dell’insegnamento di questa disciplina, la cui conoscenza «è un principio di democrazia ed eguaglianza fra i cittadini».
Purtroppo, non sarà questo ripensamento ministeriale a risolvere il problema della scarsa preparazione storica dei nostri studenti (o forse dovremmo dire “nostra” e basta), ripetutamente segnalata da osservatori e commentatori. Un dato che non riguarda solo i giovani italiani, se è vero, come riferisce Claudio Magris in un recente intervento sul “Corriere della sera”, che solo due studenti su cinque di un seminario da lui tenuto in un prestigioso college americano sapevano chi fosse Stalin. Magris arriva a parlare di «un vero Alzheimer culturale collettivo», una menomazione che lascia le persone non solo ignoranti del passato, ma inconsapevoli del presente e quindi impossibilitati ad affrontarlo (Indifesi perché smemorati, “Corriere della sera”, 23 febbraio 2020).
Possiamo aggiungere anche un’altra citazione, pure tratta dal “Corriere della sera”: «È incredibile l’ignoranza dei nostri giovani sui fatti della storia contemporanea. Ma il darne la colpa a essi è pretta ingiustizia, giacché intorno a quei fatti non si dà loro nessun insegnamento serio». Se non fosse per qualche spia linguistica, parrebbe un giudizio dei nostri giorni, l’ennesimo lamento sul fatto che “i giovani non sanno la storia”, con il corollario, indimostrato ma sempreverde, che se ciò accade è colpa della scuola. E invece la citazione è tratta sì dal “Corriere”, ma del 17 luglio 1888; autore è Edoardo Arbib, senatore del Regno, giornalista e patriota.
A quanto pare, che i giovani non sappiano la storia perché nessuno gliela insegna non è lamento solo di oggi. Come non è di oggi, evidentemente, la particolare attesa sociale che investe il ruolo della storia nella formazione delle giovani generazioni. Si attribuisce alla storia una missione civile che non si immagina per altri insegnamenti, salvo quello della lingua nazionale. La storia – si dice – è vitale nella formazione delle persone, perché senza conoscenza del passato non c’è comprensione del presente né progettazione del futuro. Senza sapere chi siamo stati non possiamo sapere chi siamo e chi vorremmo essere. Senza conoscenza degli errori del passato rischiamo di non produrre anticorpi rispetto a commetterli nuovamente. Tutto giusto. Però questi discorsi, o appelli, rischiano di essere generici e di restare lettera morta se non ci interroghiamo sulle possibili cause di questa “smemoratezza” e su che cosa si potrebbe fare per ovviarvi.
Bisogna dire che, su questo punto, sia le diagnosi sia le “ricette” più ricorrenti non paiono molto convincenti. Si sente dire spesso che a scuola basterebbe “fare” il Novecento, perché i docenti “non arrivano neanche alla Prima guerra mondiale”: un luogo comune diffusissimo e forse consolatorio, ma inconsistente, dal momento che il Novecento, perlomeno nella sua prima metà, “si fa”, eccome. Oppure si criticano i docenti perché insegnano la storia come un’arida sequenza “di nomi e date” (ma quando mai?) e li si esorta invece a renderla avvincente, come se questo non fosse un obiettivo per l’insegnamento di tutte le discipline. Oppure ancora si dice che occorre rendere “concreto” e “interessante” lo studio del passato “attualizzandolo”, come se il passato fosse un “ingombro” da “rimuovere”. Tuttavia questo approccio, assai diffuso nei discorsi didattici, ha perlomeno il merito di individuare un tema centrale nell’insegnamento della disciplina, e cioè il nesso fra conoscenza del passato e comprensione del presente. Come suggerisce Alberto de Bernardi, occorre partire dalla consapevolezza che il presente è anch’esso una costruzione storica, e che quindi il presente non spiega il presente. Più che di “attualizzare” il passato si tratta allora di storicizzare il presente (È possibile il presente senza passato?, webinar del 19 marzo 2015, in Pearson Education Library).
Probabilmente occorre partire dalla consapevolezza che mentre per tutti “noi Arbib” il valore della storia è del tutto scontato, per le generazioni di oggi non è affatto detto che sia così. Esaurita la funzione della storia come “autobiografia della nazione”, cioè come fattore di costruzione dell’identità nazionale, o della storia come inveramento fattuale di un processo di emancipazione di classe, non sembrano esservi più valori e categorie unificanti di riferimento che costruiscano il senso dello studio di questa disciplina. La conoscenza delle grande tragedie novecentesche – i totalitarismi, le guerre, la Shoah –, cui di solito si fa riferimento nel deprecare un sempre più grave deficit di “memoria”, è certamente un obiettivo di primaria rilevanza etica e civile, soprattutto in un’epoca di rigurgiti razzisti e di negazionismi, ma non può esaurire il modo in cui guardiamo e valutiamo la cultura storica che la scuola riesce a costruire.
Chiediamo di studiare, di comprendere e perfino di amare il passato a giovani immersi in un contesto di comunicazione sociale che celebra il valore di tutto ciò che è presente, immediato, veloce. Giovani che vivono in una dimensione del tempo che non sembra ammettere durate, in cui la stessa sovrabbondanza dell’informazione disponibile fatica a divenire conoscenza, anzi sembra togliere valore a quel processo di riflessione che costituisce la condizione necessaria di ogni apprendimento.
Occorre allora ammettere che il valore di quello che potremmo chiamare senso storico non è un dato, ma qualcosa che va costruito nella percezione di chi apprende. Intendo con “senso storico” non solo l’acquisizione, pur imprescindibile, di conoscenze, ma anche e soprattutto la capacità di pensare storicamente, cioè di sviluppare un insieme di conoscenze, competenze e stili di pensiero che consentano di comprendere e interpretare il presente attraverso una griglia concettuale costruita analizzando il passato.
Suggerisco che ciò possa essere fatto in due modi:
- sul piano dei contenuti, attraverso una scelta delle rilevanze storiche;
- sul piano del metodo, attraverso una chiarificazione delle finalità che attribuiamo allo studio della disciplina e al suo ruolo nella costruzione delle competenze di cittadinanza.
Quanto al primo punto, basta ricordare che il lavoro dello storico è innanzitutto un lavoro di selezione, cioè di una scelta di rilevanze. E questa scelta, come sappiamo altrettanto bene, avviene all’interno di un framework concettuale, ideologico ed emotivo che appartiene al tempo presente dello storico.
Credo che la storia insegnata debba fare più o meno lo stesso. Del resto, ogni docente di storia lo sa. Nel suo insegnamento, quali che siano i metodi che impiega, attua una continua reinterpretazione e rimodulazione del discorso storico, in rapporto al clima culturale, alle personali conoscenze e letture del docente, alle caratteristiche della classe che ha di fronte. Dentro l’enorme magazzino della storia sceglie, o almeno sottolinea, gli oggetti che ritiene più utili.
Posto che l’impianto fondamentale dell’insegnamento rimanga diacronico-narrativo – e finora non si sono affermati convincenti approcci alternativi – ci si può chiedere allora quali rilevanze, quali “fili rossi” tirare lungo il percorso.
Un modo per rispondere a questa domanda è chiedersi: quali saranno le sfide maggiori, o più semplicemente i temi più rilevanti, che si troverà ad affrontare nella sua vita di cittadino adulto un giovane che è oggi in formazione? Su quali temi è più utile attivare quell’operazione di storicizzazione del presente che costituisce l’obiettivo ultimo dell’apprendimento storico?
Proverò a dare una risposta utilizzando qualche “etichetta” che sintetizzi dei nuclei forti di senso e altamente problematici.
Una prima etichetta potrebbe essere “Geografie e interdipendenze”. Anche senza proporsi di adottare in modo radicale un approccio di “world history”, si tratta di valorizzare tutte le opportunità che il passato offre per far comprendere come i grandi fenomeni storici siano comprensibili solo dentro un contesto e dentro dinamiche “globali”, e come vi sia una dialettica sempre aperta fra “mondi separati” e “mondi uniti”. Questo si può fare sin dalla storia antica: per fare solo un esempio, si può mostrare qual è il ruolo delle migrazioni nella costruzione delle civiltà antiche, e quale tipo di dinamica si instaura fra nomadismo e sedentarietà, e come le migrazioni siano un fenomeno “sistemico”, che dipende da una pluralità di cause. Questo è forse più utile a costruire categorie di comprensione delle migrazioni oggi che non usare la dimensione storica per il richiamo un po’ moralistico al fatto che “una volta i migranti eravamo noi”.
Un secondo filo rosso di rilevanze potrebbe avere l’etichetta “Politica e diritti”. Per giovani cittadini che si troveranno probabilmente di fronte a uno scenario di erosione della funzionalità e della stessa legittimazione della politica, e che verranno sollecitati da scorciatoie di ogni tipo, potrà essere utile capire attraverso la storia quanto sia delicata, fragile e contraddittoria l’opera di gestione della polis. Per riferirci ancora alla storia antica, più che insistere su quanto la democrazia ateniese fosse “incompleta” rispetto alla nostra, perché non ammetteva ai diritti politici le donne, gli schiavi e gli stranieri (ma perché avrebbe dovuto realizzare qualcosa che le nostre democrazie hanno raggiunto da poco, o non ancora?), si potrebbe mettere in luce la straordinaria opera di costruzione istituzionale e costituzionale che greci e romani hanno compiuto. Far vedere che ci hanno consegnato non solo gran parte del vocabolario con cui parliamo di politica, ma la possibilità stessa di comprendere come la politica, se e quando funziona, sia lo strumento fondamentale per una gestione non distruttiva del conflitto sociale. Più che gli anatemi contro l’”antipolitica”, questo può servire a contrastare la svalorizzazione dilagante delle istituzioni e della politica.
Un terzo filone potrebbe essere dedicato a “Economia, ambiente, lavoro e tecnologie”, cioè a un vero e proprio grumo di problemi che sono già e sempre più saranno di pressante attualità, dalla questione della sostenibilità – intesa nel senso “largo” con cui l’interpreta l’Agenda 2030 dell’Onu - a quella del rapporto tra lavoro e innovazione tecnologica. Qui la storia può essere d’aiuto per sviluppare categorie di comprensione critica di problemi che per loro natura, e per i loro impatto anche mass-mediatico, sono fortemente soggetti a schematizzazioni. Quello che può fare la storia, anche la storia antica (mi riferisco a essa perché è quella apparentemente più lontana dalla cosiddetta “attualità”), è di far comprendere come sin dal suo inizio la storia umana sia stata una storia di relazione con l’ambiente, e di come nell’Antropocene l’ambiente non sia lo sfondo inerte, ma un protagonista delle vicende umane. Analogamente, mostrare la relazione storica fra tecniche e lavoro umano - una relazione che si sviluppa sin dagli albori della nostra civiltà - può far comprendere il rapporto fra sviluppo economico, innovazione tecnologica e conoscenza, quella che Joel Mokyr chiama “conoscenza utile”. Questo potrà forse aiutare i giovani studenti a comprendere come la costruzione di soft skills e l’attenzione a farle evolvere sia una carta decisiva per affrontare un mondo del lavoro in rapidissima evoluzione.
Quali che siano le rilevanze che ciascun insegnante vorrà porre in primo piano nella propria proposta di lettura della storia, credo che si debba avere come obiettivo di questo insegnamento la maturazione di competenze di cittadinanza e in particolare di quello che si chiama abitualmente pensiero critico (o critical thinking).
Notevoli sono le elaborazioni di questo concetto, soprattutto – ma non solo – in ambito anglosassone. Molto promettente dal punto di vista didattico è, per esempio, il progetto Making Learning Visibile, MVL, elaborato presso l’università di Harvard e che si è incominciato a sperimentare in Italia (ci si può informare su questo consultando il sito “Project Zero” dell’università di Harvard e il sito dell’Indire). Nell’ambito di tale progetto sono stati elaborate pratiche operative, le Thinking Routines, dove il maggiore interesse cade proprio sul termine “routine”, perché rimanda all’obiettivo che “allenarsi a pensare in modo critico” possa divenire una pratica corrente, una routine appunto. Chi volesse avere un’idea più precisa di queste tecniche e della loro applicabilità didattica potrà farlo grazie al minicorso digitale Le Thinking Routines. Attività per sviluppare il pensiero critico di Mauro Spicci, reperibile sul sito Pearson.
Credo che siano evidenti le ragioni per cui la storia, per la natura del suo oggetto e per il suo metodo, possa essere particolarmente adatta a sviluppare il pensiero critico. Mi limiterò a una riflessione conclusiva sottolineando quanto sia centrale nella storia la dimensione del discorso pubblico, intendendo con questo l’insieme delle pratiche discorsive che vivono nella comunicazione sociale e politica, insomma quella che Habermas chiama “sfera pubblica”. L’enorme diffusione e pervasività dei mezzi di comunicazione sociale attraverso Internet rende decisiva la capacità di capire, decifrare, valutare i discorsi. La torsione populista in atto in molte democrazie tende a far prevalere un “pensare per blocchi” che è l’esatto opposto del pensiero critico. Oggi si parla molto di fake news: credo che per stimolare coscienze avvertite su questo tema sia necessaria non solo la cosiddetta “educazione digitale”, ma anche la consapevolezza che i discorsi fanno storia. La storia ci offre una grande occasione per far comprendere ai giovani le logiche e la grammatica del discorso pubblico, e per navigare in modo più avvertito e critico una dimensione nella quale si troveranno sempre più immersi.
Si lamenta spesso “la mancanza di memoria” delle giovani generazioni (e non solo). Ma memoria e storia non sono la stessa cosa: «Non è vero che il passato si ripete se non lo si ricorda. Il passato si ripete se non lo si capisce» - scriveva incisivamente Luca Rastello. Credo che lo studio della storia ci offra una grande opportunità per realizzare una pedagogia della complessità. Il passato storico è una grande palestra per allenare la mente a diffidare delle spiegazioni troppo semplici e per esercitare il pensiero critico, che si annuncia come la competenza più importante per il cittadino di domani.