IDEE PER INSEGNARE - SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO E SECONDO GRADO
In questo articolo ci soffermiamo su alcuni nodi legati all’insegnamento della grammatica e su quali strumenti possono essere efficaci per superarli: da un lato bisognerebbe non dimenticare l’importanza delle competenze orali, cercando di fare attenzione a quei fattori specifici dell’oralità che rendono i ragazzi più sensibili alla forma fonica delle parole, mentre nella produzione scritta è bene non eccedere nelle classificazioni grammaticali già nei primi anni di scuola primaria. Torna utile in tal senso l’insegnamento di alcuni pedagogisti tardo-ottocenteschi, a cui lo stesso Collodi sembra essersi ispirato...
“Su tutte le piazze si vedevano teatrini di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose come queste: viva i balocci! (invece di balocchi): non vogliamo più schole (invece di non vogliamo più scuole): abbasso Larin Metica (invece di l’aritmetica) e altri fiori consimili.”Siamo nel cap. XXXI delle Avventure di Pinocchio: quello raffigurato è il Paese dei Balocchi che realizza – a pochi anni dall’istituzione della scuola elementare obbligatoria nell’Italia unita (Legge Coppino del 1877) – l’utopia di un mondo senza scuola, abitato solo da ragazzi dagli 8 ai 14 anni. Ma gli errori che le scritte sui muri rivelano dovevano essere diffusi anche tra gli scolari del tempo, e non solo tra i monelli, se lo stesso Collodi, nella Grammatica di Giannettino adottata nelle scuole comunali di Firenze, un libro scolastico uscito nello stesso anno dell’edizione in volume di Pinocchio (1883), sentiva il bisogno di dedicare un intero capitolo (XIX) a una serie di Errori comunissimi e che fanno molto torto, in cui incappano spesso i ragazzi “che hanno imparato a scrivere a orecchio e senza nozioni di Grammatica”. Si tratta di errori di ortografia tuttora comuni: scambi di lettere (tenpo per tempo, incenzo per incenso), resa sbagliata dei suoni palatali senza/con i muta (cuccagnia per cuccagna) o dei suoni velari senza h muta (biricinate per birichinate), incertezze nelle doppie (privileggio, aciuga, inezzia) o nella scelta dell’articolo (il scoglio, un scempio).
Segno che certe idiosincrasie della grafia italiana ponevano non pochi problemi già nelle scuole fiorentine del tempo. Ma l’aspetto su cui vorrei soffermarmi è una notazione interessante di Collodi, secondo cui molti errori deriverebbero dal fatto che i ragazzi “si lasciano abbindolare dall’orecchio” e non vogliono saperne di studiare la grammatica.
In un altro punto della sua grammatica dialogica, del resto, Collodi inserisce – a mo’ di esercizio suggerito a Giannettino dal dottor Boccadoro – una lettera piena di “spropositi” scritta da tal Bastiano, che così giustifica gli eventuali “sfarfalloni”: “io, non mi vergognio a dirlo, sono stato a scuola in Colleggio, ma la Gran matica non l’ho voluta mai studiare, perché ho sempre sentito dire che no’ altri fiorentini si scrive e si parla bene la lingua italiana senza ibbisognio di studiarla sur i libri”.
Emerge qui un nodo importante, sul quale vorrei soffermarmi: il rapporto tra la cura dell’oralità e la corretta grafia. Perché quest’ultima è molto spesso – giustamente – correlata all’ampiezza delle letture, ovvero all’osservazione della lingua scritta da altri (tipicamente in testi a stampa), e quindi all’attenzione verso la forma grafica delle parole, ma molto più raramente è collegata alla cura del parlato e a una riflessione strutturata sui suoni delle parole. Perché, se è vero che a volte è l’orecchio che ci inganna, è anche vero che l’orecchio (e quindi l’ascolto) può e deve essere educato anche (ma non solo) per gli effetti positivi che la competenza “orale” può avere sulla lingua scritta: che si tratti di Gran matica o di Larin metica!
Come afferma il dottor Boccadoro, del resto: “chi parla male, per il solito scrive anche male".
Lo sviluppo spontaneo delle capacità comunicative orali da parte di bambine e bambini ha portato a sottovalutare un aspetto che nell’apprendimento della lingua scritta è invece al centro dell’attenzione pedagogica: la riflessione sulle diverse fasi e procedure concrete che portano alla produzione di messaggi orali.
Le Indicazioni nazionali del 2012 richiamano l’importanza delle competenze orali per l’esercizio del diritto costituzionale alla parola e per lo sviluppo delle abilità di studio nelle varie discipline, mettendo a fuoco il passaggio dal “modo naturale” di parlare a una capacità “gradualmente sistematizzata” di comprendere e produrre testi e discorsi di vario tipo; dunque, da un parlato “naturale” a un parlato “funzionale pianificato” (come auspicava Colombo 2001), sia in contesti di interazione che nella situazione monologica. Ma quanto di queste indicazioni passa nelle pratiche didattiche, in cui sembra ancora avere uno spazio predominante l’interrogazione? Un’analisi dei più recenti libri di testo per le primarie e secondarie, del resto, conferma la scarsa rilevanza delle competenze orali rispetto a quelle scritte, e la tendenza a privilegiare l’educazione di un parlato formale chiaramente modellato sullo scritto (Voghera 2017) – e di conseguenza non attento a fattori che sono specifici dell’oralità: il controllo del volume della voce e della velocità di dizione, la chiarezza dell’articolazione, il controllo dell’intonazione e delle pause, i fenomeni di "allegro". Tutti elementi che ci rendono sensibili verso la forma fonica delle parole prima ancora che (e a prescindere da) la forma grafica. Perché gli errori di ortografia si nascondono quasi sempre nei punti di mancata corrispondenza tra pronuncia e grafia (pensiamo ai suoni palatali, che non esistevano in latino, e che l’italiano si è ingegnato a rendere con digrammi e trigrammi), oppure sono legati all’esistenza di parole omofone (o/ho, ai/hai, a/ha, anno/hanno) o alla persistenza di grafie etimologiche (quota vs cuore).
Nei libri, inoltre, l’ortografia e le relative difficoltà non sono quasi mai messe in corrispondenza con la scansione orale delle parole: nel continuum del parlato, infatti, le parole atone tendono a formare un’unità fonica con la parola adiacente (lalbero o indialetto sono naturalmente percepite come parole uniche). La punteggiatura, poi, anziché essere affrontata nei suoi nessi con la sintassi e con il testo, viene solitamente liquidata in coda all’ortografia e – in questo caso a torto – collegata alla pratica orale della lettura ad alta voce (donde le relative indicazioni sul valore dei diversi segni, legata alla “durata” delle pause e all’intonazione affermativa / interrogativa / esclamativa / di sospensione dell’enunciato), quando in realtà i segni ci danno molto più spesso indicazioni sulla struttura (per es. in presenza di virgole che delimitano incisi, o di due punti con valore esplicativo) e sulla conseguente interpretazione della frase e del testo.
Quasi mai, inoltre, si ragiona sull’ortografia in chiave storica: eppure basterebbe leggere un libro come Pinocchio, appunto, per rendersi conto che le ciliegie potevano scriversi anche ciliege (grafia che si trova ancora nel titolo di un libro di Oriana Fallaci pubblicato postumo nel 2008), e che le province, nello stesso periodo storico (cui risale la fondazione della banca CaRiPLo), erano provincie, coerentemente con la grafia latina; che nei libri di scuola dei nostri nonni era corrente la grafia à per ha (anche Govoni scriveva “il tempo à roso i muri”). A riprova del fatto che molte convenzioni si sono stabilizzate solo in tempi recenti.
Al consolidamento dell’ortografia potrà certo giovare il dettato (che può essere anche un dettato di “non parole” – come suggerisce Monighetti 1994), ma conta anche la pronuncia controllata da parte del docente nella normale interazione in classe, la sua capacità di spiegare (a sé stesso per primo) le difficoltà che si annidano negli errori più diffusi. Conta l’abitudine a far riflettere bambine e bambini sui suoni più problematici (quelli che compaiono nelle cosiddette “parole capricciose”), su coppie di parole dalla forma simile ma di significato diverso (capi/capì, pala/palla, cane/canne), sull’autonomia delle parole piene viste in vari contesti sintattici (la casa, a casa, fuori casa), su casi di possibile ambiguità (l’asola/la sola; distanza / di stanza).
Da questo punto di vista, sempre molto utili sono i giochi di parole (zeppe, scarti, anagrammi, lipogrammi ecc.), come pure la lettura ad alta voce di poesie (anche non-sense) o la recita di scioglilingua: tutte attività che portano in modo indiretto (ma non meno efficace) l’attenzione sulla consistenza fonica delle parole. Può giovare anche la proposta di testi metalinguistici (come quelli di Rodari, Piumini e altri) che facciano nascere dagli errori storie sorprendenti.
Interessante notare come la “caccia all’errore altrui” proposta da Collodi nella sua grammatica sia ancora un esercizio praticabile: è appena uscito per Salani un divertente libretto per ragazzi, intitolato Il professor Strafalcioni e i giriglifici (di Fabrizio Gatti e Andrea T. Canobbio), che nasconde al suo interno 31 errori (di cui uno nel titolo) e la sfida: “Aguzza la vista e trovali tutti, se ci riesci”. Erickson propone invece una collana di “mini gialli dell’ortografia” (scritti da Susi Cazzaniga e Silvia Baldi) che hanno come protagonista L’ispettore Ortografoni e difficoltà graduate.
Veniamo ora all’affermazione di Collodi per cui le nozioni di grammatica sarebbero utili, anzi indispensabili, per scrivere in modo corretto. In quel periodo l’ortografia rientrava a pieno nella grammatica e costituiva anzi uno degli aspetti fondamentali dell’insegnamento elementare. Oggi abbiamo una concezione diversa (più ampia e centrata sulle strutture) della grammatica, insieme con la consapevolezza che la correttezza di uno scritto non si risolve nell’aspetto ortografico, anche se l’errore di ortografia è tra i più facili da individuare e sanzionare, e non solo a livello scolastico (gli esperti di comunicazione parlano di effetto “spinacio tra i denti”).
Per la maggior parte delle tipologie di errori ortografici che si commettono in italiano giovano di più un orecchio e un occhio educati che una mente allenata a classificare per parti del discorso. L’orecchio va allenato alla corretta percezione delle distinzioni fonologiche, tanto quanto l’occhio va allenato a fotografare le grafie corrette nei casi più problematici per riconoscerle a ogni lettura, al di là delle spiegazioni (grammaticali o etimologiche) che si possono fornire – ammesso che gli studenti siano in grado di recepirle e di utilizzarle per discriminare i casi ambigui.
Lo stesso dottor Boccadoro si premura di chiarire a Giannettino che l’oggetto delle sue lezioni non sarà “la Grammatica vera e propria, con tutte le sue classificazioni e le sue definizioni”: questa gli verrà insegnata più avanti, quando la sua mente “sarà un po’ più matura ed esercitata allo studio”. Iniziare troppo presto, infatti, è una perdita di tempo per l’insegnante, e crea una gran confusione nella testa degli allievi. Ma quanti di noi, come Boccadoro, sono convinti “che si debba insegnare ai ragazzi unicamente quel tanto che sono in grado di comprendere e di ritenere”?
Troppo spesso, e incautamente, le classificazioni grammaticali vengono introdotte già nei primi anni di scuola primaria, proprio per spiegare difficoltà ortografiche: la separazione tra le parole, l’uso del grafema h in alcune voci del verbo avere, l’uso degli accenti grafici per distinguere omofoni, l’uso dell’apostrofo in caso di elisione. Ora, è evidente che l’impianto della corretta grafia richiede in alcuni casi spiegazioni metalinguistiche (si pensi alla necessità di introdurre la distinzione tra forma maschile e femminile del nome per regolare l’uso dell’apostrofo dopo un), ma l’introduzione precoce di categorie grammaticali come “verbo”, “articolo”, “pronome”, “preposizione” e così via non costituisce di per sé una soluzione “a misura di bambino”, e come tale in grado di aiutare a fissare distinzioni (orto)grafiche (es. tra a/ha o e/è). Al contrario, rischia di rappresentare un sovraccarico cognitivo e un elemento di confusione proprio nel momento in cui la mente del bambino è impegnata nella complessa e delicata operazione dell’impianto della lingua scritta (“imparare a leggere scrivere", come Pinocchio col suo Abbecedario), e la riflessione linguistica dovrebbe essere fatta in modo “leggero” e sperimentale, a partire da occasioni concrete e secondo quel “metodo naturale” cui si ispiravano i pedagogisti tardo-ottocenteschi – da cui lo stesso Collodi appare influenzato.
Vorrei, in chiusura, introdurre un ultimo elemento di riflessione rispetto alle pratiche di correzione. Che cosa corregge l’insegnante? E, prima ancora, come si pone di fronte a una produzione scritta che è chiamato a valutare? Leggiamo il testo prima di correggerlo? O assumiamo subito la “postura” del correttore? L’ortografia, infatti, non costituisce solitamente un ostacolo alla comprensione, ma pregiudica negativamente la valutazione dell’elaborato, a prescindere dal rispetto della consegna.
E ancora: con quale tipo di “testo atteso” confrontiamo l’elaborato? In che misura abbiamo chiaro ed esplicitiamo il modello di “buon testo” soggiacente alle nostre pratiche di correzione?
Senza entrare nel merito della questione, vorrei – da insegnante – ricordare che il miglior tonico per la scrittura degli allievi non è l’acribia nella correzione a valle degli errori nello scritto, ma l’attenzione a monte al come, per chi e perché si scrive un certo tipo di testo (e non solo un testo scolastico come il “tema”), e la considerazione degli effetti che certi errori possono avere sulla chiarezza del messaggio e/o sulla sensibilità linguistica del destinatario. Va incrementata anche l’abitudine a portare l’osservazione dei fatti di lingua nei testi che leggiamo (per capirli, prima ancora che per analizzarli secondo griglie precostituite).
Infine, dobbiamo lavorare per instillare il riflesso della rilettura finalizzata all'autocorrezione: la tendenza a “scrivere come si parla” non comporta infatti solo trascuratezza lessicale e sintattica, ma anche la riluttanza a tornare indietro per controllare la correttezza e la tenuta del testo.