Platone nacque ad Atene da famiglia aristocratica nel 427 a.C. Secondo Aristotele, da giovane Platone fu scolaro di Cratilo, un seguace di Eraclito. A vent’anni cominciò a frequentare Socrate diventandone discepolo.

Platone trascorse la sua giovinezza durante la guerra del Peloponneso (431 – 404 a.C.). Aveva 23-24 anni quando Atene fu sconfitta definitivamente dagli Spartani ed ebbe inizio il governo oligarchico dei Trenta tiranni. Tra i Trenta tiranni c’erano Crizia, cugino della madre di Platone e leader del gruppo, e Carmide, zio di Platone; essi lo invitarono a prendere parte alla vita politica.Platone si aspettava che i nuovi governanti reggessero la città secondo giustizia e seguì quindi con attenzione le loro scelte politiche, rendendosi conto, però, in breve tempo, che il vecchio governo democratico era decisamente migliore del nuovo regime aristocratico. In particolare, Platone si indignò per la tattica utilizzata dai Trenta tiranni: costoro, allo scopo di consolidare il proprio regime, cercavano di coinvolgere in azioni criminali dei privati cittadini, che in tal modo sarebbero diventati automaticamente loro sostenitori. Una di queste vittime fu Socrate. Quanto accadde a Socrate fu una delle tante ingiustizie compiute dai Trenta tiranni durante il loro breve governo; Platone ne fu disgustato e non ne volle più sapere del regime oligarchico. 

Il governo dei Trenta cadde poco dopo. Dopo un breve periodo in cui Atene fu governata da una commissione di dieci uomini, i democratici tornarono al potere nel 403, e di nuovo Platone fu preso dal desiderio, anche se meno intenso, di dedicarsi alla politica. Se non che accaddero proprio in questo periodo i fatti che condizionarono l’intera vita di Platone: il processo e la condanna a morte di Socrate, accusato di empietà, cioè di non credere agli dèi della città.Platone rimase profondamente colpito dall’ingiusta condanna di Socrate; fu sconcertato anche dalla fondamentale disonestà di quanti partecipavano alla vita politica e dalla dissoluzione delle leggi e dei costumi.

Dopo la morte di Socrate, Platone si recò a Megara, presso Euclide, poi in Egitto e a Cirene. Nei suoi scritti Platone non parla di questi viaggi, parla invece del viaggio che fece nell’Italia meridionale, dove conobbe le comunità pitagoriche, e in particolare a Siracusa, dove strinse amicizia con Dione, cognato di Dionigi il Vecchio, tiranno della città. Si racconta che, sospettato da questi di voler attuare una riforma politica nella città, venne addirittura venduto come schiavo.Fu poi riscattato da Anniceride di Cirene; ma il denaro del riscatto fu rifiutato quando si seppe di chi si trattava e servì alla fondazione dell’Accademia, cioè della scuola di Platone, che si chiamò così perchè sorse nel ginnasio aperto da Accademo ad Atene.

L’Accademia fu organizzata sul modello delle comunità pitagoriche, ovvero come un’associazione religiosa, un “tiaso”, e vi insegnarono maestri di notevole prestigio. In questo periodo compose i suoi dialoghi più maturi (il Menone, parte della Repubblica, l’Euitidemo, il Cratilo, il Fedro, il Fedone e il Simposio). Alla morte di Dionigi il Vecchio, nel 367 a.C., Platone fu richiamato da Dione a Siracusa, alla corte del nuovo tiranno Dionigi il Giovane, perché desse il proprio consiglio per la riforma dello Stato. Ma l’urto tra Dionigi e Dione, che fu esiliato, rese vano ogni tentativo.

Alcuni anni dopo, fu lo stesso Dionigi a richiamarlo con insistenza alla sua corte. Platone vi si recò nel 361 a.C., spinto anche dal desiderio di aiutare Dione, che era rimasto in esilio, ma non trovò alcun accordo con Dionigi. Così dopo essere stato trattenuto per un certo tempo quasi come un prigioniero, lasciò Siracusa e ritornò ad Atene, dove rimase per tutto il resto della sua vita, dedito solo all’insegnamento. Morì a 80 anni, nel 347 a.C.L’Accademia continuò a operare finché non venne chiusa da Giustiniano nel 529 d.C., quando vennero espulsi da Atene gli ultimi filosofi pagani.

La teoria delle idee

Platone sviluppa la teoria delle idee per approfondire il concetto di scienza, ponendolo come un sapere concettuale e assoluto che vada oltre il relativismo sofistico. Le idee di Platone sono entità metafisiche sussistenti alle quali Platone conferisce tutte le caratteristiche dell’essere parmenideo (tranne l’unicità). Le idee risiedono nell’Iperuranio. L’Iperuranio è una regione trascendentale e aspaziale (paragonata all’empireo dantesco o al paradiso cristiano) dove ha origine anche l’anima.

Per Platone le cose appartenenti alla realtà sensibile non sono altro che copie imperfette delle idee, che diventano così i modelli unici e perfetti delle cose molteplici e imperfette di questo mondo. Da queste considerazioni, Platone arriva a sostenere la prospettiva dualistica sia della conoscenza che dell’essere: l’opinione, il grado inferiore della conoscenza, ci porta a una verità imperfetta, avendo come oggetto di studio le cose imperfette della realtà sensibile; la scienza, invece, ci porta alla verità perfetta e immutabile, avendo come oggetto di studio le idee.

Ma qual è il legame che lega le idee con le cose? Le idee sono criterio di giudizio delle cose, ovvero la condizione di pensabilità degli oggetti (ad esempio, diciamo che due cose sono uguali sulla base dell’idea di uguaglianza); ma le idee sono anche le cause delle cose, ovvero i modelli che le cose imitano o di cui le cose partecipano (ad esempio, diciamo che due individui sono uomini, in quanto partecipano entrambi dell’idea di uomo, la quale si pone come causa per cui essi sono uomini, e non donne).
In ultima analisi si vanno così a configurare tre diversi tipi di rapporti idee-cose:

  1. Mimèsi: per cui le cose imitano le idee
  2. Metèssi: per cui le cose partecipano, seppure in misura limitata, dell’essenza delle idee
  3. Parusìa: per cui le idee sono presenti nelle cose

Nella fase della maturità, Platone sviluppa una gerarchia che ordina le idee all’interno dell’Iperuranio:

  • le idee-valori, corrispondenti ai supremi principi etici, estetici e politici (il Bene, la Bellezza, la Giustizia, ecc.);
  • le idee matematiche, corrispondenti alle entità e ai principi matematici (l’uguale, il quadrato, ecc.);
  • le idee di cose naturali, come l’idea dell’uomo;
  • le idee di cose artificiali, come l’idea di letto.

Le idee platoniche vanno così a tessere una “trama” di essenze aventi un ordine gerarchico-piramidale, con le idee-valori in cima e l’idea del Bene al vertice, il quale supera tutte le altre per “valore e potenza”, ma non le crea (risulta quindi assente l’associazione del Bene a un dio persona-creatore).Chiarite tutte le caratteristiche delle idee, Platone deve spiegare la modalità per cui l’uomo riesce ad accedere alla conoscenza di esse. Platone, dunque, ricorre alla dottrina-mito dell’anàmnesi, o della reminiscenza, cioè del ricordo: come già detto in precedenza, l’anima ha origine nell’Iperuranio, dove risiede contemplando le idee fino a quando non si incarna nel nostro corpo. Tale contemplazione si trasferisce in noi come un ricordo sopito il quale riaffiora mano a mano grazie all’esperienza delle cose. Tutto ciò porta a considerare la conoscenza umana una forma di innatismo, essendo la conoscenza basata su idee (o “metri” di giudizio) presenti da sempre nel soggetto conoscente, e non basata sull’esperienza sensibile (empirismo).

La Repubblica di Platone

Al problema politico Platone dedicò due importanti opere (come farà poi Cicerone con De re publica e De legibus), una dedicata alla teoria politica, la Repubblica, l’altra al funzionamento e alla regolamentazione dello Stato, le Leggi.La Repubblica (in greco Politèia) è un dialogo, composto tra il 380 e il 370 a.C., in dieci libri.
Socrate racconta ad alcuni amici una discussione tenutasi il giorno precedente in casa di Polemarco al Pireo. Ha come interlocutori principali, oltre a Socrate, Polemarco, il sofista Trasimaco di Calcedonia, Glaucone e Adimanto. Nel I libro, che ha la funzione di un vero e proprio prologo, è trattato il problema iniziale dell’essenza della giustizia. Di qui si passa a quello dell’origine e della natura dello Stato.

Sono dapprima analizzate le caratteristiche di uno Stato primitivo, sano, nel quale sono soddisfatti soltanto i bisogni fondamentali dell’uomo. Poi l’ambito della discussione si estende fino all’ipotesi di uno Stato più grande, più avanzato, più confortevole. È di qui che prende le mosse la delineazione della struttura di uno Stato ideale, che occupa la parte centrale del dialogo. Nello Stato ideale esistono tre classi di cittadini: la classe dei filosofi-magistrati, che hanno il compito di dirigere lo Stato e quindi ad essi deve essere impartita una speciale educazione; la classe dei guerrieri; in basso, la classe dei lavoratori e commercianti, dediti alla produzione delle ricchezze.

Questa tripartizione delle classi costituenti lo Stato corrisponde alle tre anime dell’individuo e sono governate dalle stesse virtù, vale a dire rispettivamente dalla sapienza, dalla fortezza, dalla temperanza. Virtù suprema è la giustizia, in forza della quale classi e individui adempiono al compito loro proprio, senza usurpare le attribuzioni altrui. I membri delle due classi superiori devono essere educati al più totale disinteresse e al superamento degli egoismi. Proprio a questo scopo, debbono vivere in una specie di collettivismo, avendo in comune ogni proprietà, compresa la famiglia.

Dopo un’analisi delle forme storiche dello Stato e delle varie possibili degenerazioni dei modi di reggimento e dopo la celebre condanna dell’arte (i poeti devono essere espulsi dalla repubblica), il dialogo si chiude con il mito di Armenio, del guerriero tornato in vita dopo la morte, il quale ha visto come nei luoghi d’oltretomba le anime dei giusti sono premiate e come le altre siano dopo il giudizio avviate a nuove sorti. Le tesi più ardite della Repubblica di Platone, in particolare quella della comunanza delle donne e dei beni (comunismo platonico), furono criticate da Aristotele nella Politica e satireggiate da Aristofane. 

Secondo Platone, per poter governare uno Stato, e quindi per fare in modo che gli uomini imparino ad essere veri cittadini, c’è bisogno delle leggi. A questo problema Platone dedica l’ultima sua opera, le Leggi, in ben 12 libri. Platone è ormai più vivamente consapevole della debolezza della natura umana, e perciò ritiene indispensabile che anche in uno Stato bene ordinato vi siano leggi e sanzioni penali. Ma la legge deve conservare la sua funzione educativa; non deve solo comandare, ma anche convincere e persuadere della propria bontà e necessità.

Il mito della caverna

Il mito della caverna è uno dei miti più noti della Repubblica di Platone contenuto nel settimo libro dell’opera. Il mito della caverna è la descrizione narrativa del percorso conoscitivo del filosofo, il quale, nella sua ricerca della verità, si stacca dal mondo sensibile per raggiungere le idee e il Bene, e ritornare quindi tra gli altri uomini per governare la città nel modo migliore.Il racconto può essere diviso e analizzato in quattro sezioni.

La caverna è un luogo angosciante, dove i prigionieri, incatenati fin da fanciulli, scorgono soltanto alcune ombre proiettate sulla parete che sta loro di fronte. Essi ritengono che le ombre siano l’unica e vera realtà esistente e non possono immaginare ciò che accade alle loro spalle. Nella seconda parte del mito, Platone immagina che uno schiavo venga liberato dalle catene e trascinato all’esterno della caverna. Dopo aver scoperto che né le ombre che vedeva quando era incatenato, né gli oggetti portati lungo il muro e proiettati sul muro costituiscono la vera realtà, egli sarebbe abbagliato dalla luce del sole e solo poco per volta imparerebbe dapprima a discernere gli oggetti del mondo autentico e alla fine a guardare direttamente il sole (l’idea somma del bene). Invece di rimanere a contemplare in solitudine il sole e il mondo reale, cioè il Bene e la verità, lo schiavo liberato decide di tornare nella caverna, per comunicare agli altri prigionieri ciò che ha visto e per aiutarli a liberarsi a loro volta della prigionia. I suoi occhi, però, faticheranno a riadattarsi al buio ed egli sarà deriso dagli altri schiavi, che si convinceranno che la luce esterna gli abbia rovinato gli occhi e quindi non gli crederanno. E alla fine, infastiditi dal suo tentativo di scioglierli e di portarli alla luce del sole, lo uccidono (è l’uccisione del filosofo: l’allusione a Socrate è evidente). 

Platone ricorda che l’impegno del filosofo verso i suoi simili è accolto il più delle volte con diffidenza, poiché chi ha raggiunto i più alti gradi della conoscenza fatica a tornare ad occuparsi delle cose ordinarie della vita: egli apparirà “ridicolo” a chi è immerso totalmente nella vita sensibile. Tuttavia, la “missione” del filosofo è degna del massimo rispetto.

Bibliografia