Una nazione “da fare”

All’inizio del XIX secolo la penisola italiana è divisa in vari stati, diversi per storia, modalità di formazione, istituzioni, attività produttive; mancano adeguate vie di comunicazione, il commercio interno è ridotto al minimo e solo una ristretta minoranza della popolazione parla correntemente l’italiano (circa il 2,5% degli abitanti, secondo Tullio de Mauro). Eppure, nel corso dell’Ottocento, si diffonde l’idea dell’esistenza di una nazione italiana, intesa come una comunità etnica i cui elementi costitutivi sono sia naturali (razza, terra), sia culturali (storia, tradizioni, lingua, religione). «…una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor/», scrive Alessandro Manzoni in Marzo 1821.

Giuseppe Mazzini è il primo a divulgare l’idea dell’Italia come una comunità di parentela, una nazione-madre i cui figli sono tutti fratelli, legati tra loro in senso sincronico ma anche diacronico, con le generazioni passate e con quelle future. É inoltre una comunità voluta da Dio, che le ha affidato una terra e una missione, e che ha dietro di sé un passato di dominazioni straniere, di oltraggi («tutti hanno bevuto a quel calice che Dio serbava all’Italia»)1 e di discordie cittadine, un passato che si deve riscattare mediante una guerra che porti alla sua unità e indipendenza. Questa idea viene trasmessa non solo tramite saggi o scritti politici, ma anche tramite romanzi, tragedie, poesie, inni di guerra, canzoni popolari. Quello che emerge è l’immagine della nazione oppressa dallo straniero e divisa, e la lotta e il sacrificio fatti dall’eroe per liberarla.

Questi testi hanno un forte impatto emotivo sui giovani e, anche se dietro la decisione di combattere nelle guerre di indipendenza vi sono diversi tipi di motivazioni - ricerca di migliori condizioni di vita, riscatto sociale, desiderio di contare di più politicamente, spirito di avventura, motivazioni psicologiche -, lettere e memorie testimoniano la piena interiorizzazione degli ideali nazionali. Sbarcato in Sicilia con i Mille guidati da Garibaldi, Giuseppe Bandi (1834-1894)2 si considera fortunato di poter morire per la patria e immagina di vedere nell’isola Giovanni da Procida (protagonista della omonima tragedia di Giovan Battista Niccolini)3 raccolto nel suo mantello bruno, mentre alcuni dei suoi compagni gli ricordano gli eroi dei romanzi di Francesco Domenico Guerrazzi (L’assedio di Firenze) e di Massimo D’Azeglio (Ettore Fieramosca). La guerra comporta fatiche e disagi, ai quali i volontari non sono abituati, ma che affrontano sostenuti da quello che considerano un grande ideale, per il quale vale la pena di rischiare la vita e di abbandonare tutto, compresa la famiglia. Molti giovani si arruolano nell’esercito o nelle file di Garibaldi all’insaputa dei genitori, spiegando il loro comportamento in lettere colme di retorica, in cui i propri affetti vengono sacrificati sull’altare della patria e in cui emerge il proposito di continuare a lottare fino a unificare l’intera penisola. 

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L’Italia da completare e rafforzare

Con l’annessione del Veneto (1866) e di Roma (1870), il Regno d’Italia si può considerare sostanzialmente costituito; deve quindi impegnarsi nella organizzazione interna e nel consolidamento. Ma l’unificazione non è completa: Trento e Trieste, Istria e Dalmazia sono ancora sotto il dominio asburgico. La liberazione delle terre irredente viene rimandata a tempi più propizi, tanto che nel 1882 l’Italia entra a far parte della Triplice Alleanza, con Germania e Austria. La nazione si deve rafforzare e, pur richiamandosi a una tradizione risorgimentale imperniata sul concetto di liberazione dei popoli oppressi, non disdegna l’impresa coloniale installandosi in Somalia ed Eritrea e tentando, senza successo, l’occupazione dell’Etiopia.

La vittoria nella guerra di Libia del 1911-12 riscatta le precedenti sconfitte africane e rivela le mire espansionistiche dell’Italia e le sue ambizioni di diventare una grande potenza. Le pretese italiane sulla Tripolitania vengono giustificate con l’antico possesso romano di quelle terre, con il giusto espansionismo di una nazione di lavoratori (il mito della nazione proletaria, ripreso poi dal fascismo) e con l’inferiorità e la barbarie della popolazione locale. Gli ideali democratici e risorgimentali si mescolano ora a quelli del nascente nazionalismo: i vecchi garibaldini guardano con entusiasmo la gioventù pronta a immolarsi per la patria, ma questi giovani sono sospesi tra gli ideali del passato e l’esaltazione della violenza e della guerra propagandati agli inizi del nuovo secolo da Giovanni Papini, Tommaso Marinetti, Gabriele D’Annunzio. 

> Documento 2

La partecipazione dell’Italia al primo conflitto mondiale accentua questa fusione e confusione di ideali. I giovani che partono con entusiasmo alla volta del fronte (entusiasmo che riguarda gli appartenenti alle classi colte, diverso il discorso per i contadini) pensano di combattere e morire come gli eroi del Risorgimento. Nessuno è preparato alla nuova guerra, alla sua lunghezza logorante, alle nuove armi utilizzate, alle migliaia di morti, al coinvolgimento della popolazione. Nessun eroismo, ma un lento massacro. La morte fa paura, ma consola il pensiero del sacrificio per una causa nobile e bella, la patria da completare o rendere più grande e forte. 

> Documento 3 e Documento 4

E la vita in trincea, la condivisione di paure e pericoli, il contatto tra soldati appartenenti a diverse classi sociali e a diverse parti della penisola creano o rafforzano il sentimento di appartenenza a una stessa nazione.

In difesa della patria: l’ascesa del fascismo

La vittoria nel primo conflitto mondiale non porta ai risultati sperati: l’Italia ottiene il Trentino, l’Alto Adige, Trieste, Gorizia e l’Istria, ma non la Dalmazia, la città di Fiume (abitata da una maggioranza di italiani) né compensi territoriali in Africa. Quella che D’Annunzio definisce «vittoria mutilata» accende le passioni nazionaliste di interventisti ed ex combattenti, che appoggiano il “vate della patria” nell’occupazione di Fiume (settembre 1919-gennaio 1921). Nel frattempo la crisi economica e sociale determina una serie di scioperi, sia in campo industriale sia agrario, che fa nascere nelle classi borghesi la paura di una rivoluzione analoga a quella scoppiata in Russia nel 1917.

L’incapacità dello stato liberale di gestire la situazione apre la strada all’ascesa del movimento fascista guidato da Benito Mussolini, che si pone come garante dell’ordine e baluardo contro il pericolo bolscevico, attirandosi il consenso di imprenditori, agrari, militari, ceti medi. Gli episodi di violenza delle squadre fasciste, coperti dalla polizia e dalle autorità, sono spesso deprecati dall’opinione pubblica e dalla stampa, ma non si va oltre un semplice biasimo che a volte nasconde un’implicita approvazione. In un articolo del 18 marzo 1921 il “Corriere della sera” specifica che gli eccessi delle squadre possono essere deplorati, ma «deve essere ben chiaro che i fascisti sono l’ala estrema di un grande partito nazionale che ha voluto il sacrificio delle guerre per il bene dell’Italia e non vuole che l’Italia perisca soffocata da una stolida e, presso le genti più civili, ormai superata utopia [quella socialista]4» . In altri casi l’appoggio è più esplicito, come quello dichiarato il 29 ottobre 1922, poco dopo la marcia su Roma, dai liberali della provincia di Vicenza, che «si onorano di aver sempre appoggiato il fascismo e affermano di aderire al motto fascista fiduciosi di arrivare così alla libertà vera, quale venne auspicata dai loro “grandi precursori”»5.

In breve tempo Mussolini abolisce proprio quella libertà così cara ai vecchi liberali, instaurando un regime autoritario e antidemocratico, che riesce a controllare la popolazione e acquisirne il consenso tramite la repressione, l’utilizzo dei mezzi di comunicazione (stampa, radio, cinegiornali, cinema), il controllo dell’istruzione e della cultura, le organizzazioni di massa (Figli della Lupa, Balilla, Avanguardisti, Gruppi universitari fascisti, Gruppi femminili fascisti, Opera nazionale dopolavoro). La patria si configura come un’entità monolitica in cui è proibito il dissenso e il pluralismo.

Chi nasce nel ventennio fascista subisce un’opera di indottrinamento e di inquadramento fin dalla culla: ritratti di Mussolini esposti nelle scuole e negli uffici, il fascio littorio presente ovunque, scritte guerriere sui muri, discorsi del duce trasmessi alla radio, grandi folle mobilitate in occasione delle ricorrenze fasciste (come la marcia su Roma), attempati gerarchi che si esibiscono in pericolosi esercizi ginnici, scolari che sfilano in camicia nera e con fucili di legno. «Finalmente ho visto il duce!» è, ad esempio, il tema di un concorso letterario per alunni delle elementari vinto da Raimondo Luraghi (1921–2012) orgoglioso ed emozionato nelle sua divisa di Balilla alpino mentre viene sollevato in alto sul palco e mostrato alla platea. La nazione italiana viene presentata come giovane, forte, autonoma, erede delle glorie dell’antica Roma e degli eroi del Risorgimento, e in grado di conquistarsi un suo posto tra le grandi potenze europee. Questo spiega il sostegno all’incremento demografico con premi alle famiglie più numerose, la “battaglia del grano” con l’obiettivo di raggiungere l’autosufficienza alimentare, la politica estera aggressiva con l’attacco all’Etiopia nel 1935 e la costituzione dell’Impero italiano in Africa orientale, l’appoggio al generale Franco nella guerra civile spagnola, l’avvicinamento alla Germania e la successiva introduzione delle leggi in difesa della razza nel 1938.

L’Italia fascista in guerra

Per chi nasce e cresce all’ombra di Mussolini, l’Italia fascista è del tutto normale e naturale, dal momento che non esistono altri termini di paragone. Verso la fine degli anni Trenta si assiste a un primo calo del consenso nei confronti del regime, calo che non impedisce ai soldati di fare il loro dovere in nome della patria, come era stato insegnato loro. 

> Documento 5 e Documento 6

I primi insuccessi militari nella Seconda guerra mondiale svelano l’impreparazione del paese e le sue velleità di potenza. I giovani vivono in prima persona il fallimento della politica di potenza e di esaltazione bellica propagandate per molti anni.

L’Italia entra in guerra nel giugno 1940, dopo la sconfitta della Francia, e i suoi tentativi di attacco all’Egitto e alla Grecia falliscono miseramente. C’è chi, prigioniero della cultura in cui è stato allevato, non si rassegna alla realtà e cerca di giustificare la guerra fascista all’interno dei canoni della retorica nazionale, fino a partire volontario e ad andare a morire per la patria. Ma in genere ottimismo ed entusiasmo si smorzano rapidamente, svelando l’inganno della propaganda fascista. Emergono la follia e il cinismo di un regime che aveva trascinato il paese in guerra senza preparazione, quasi senza armi e con un vestiario inadeguato. Si rivelano l’inutilità e l’assurdità di riti e cerimonie collettive, come i sabati fascisti su e giù per i viali a provare il passo di parata a gamba tesa, le riviste in piazza Vittoria, i generali e i colonnelli impettiti nelle loro uniformi. La realtà cruda della guerra, a fianco di un alleato che appare sempre più crudele e feroce, spazza via inganni e illusioni. Le lettere di molti soldati contadini rivelano l’attaccamento alla “piccola patria”, alla terra e alla famiglia, e una certa rassegnazione mista alla speranza di tornare presto a casa; ma per molti altri, per quelli che andranno a combattere sulle montagne, si va delineando un’opposizione sempre più concreta al fascismo in nome di un’idea diversa di patria.

Una nazione da “rifare”

I percorsi sono vari. Per Giorgio Bocca (Cuneo 1920-Milano 2011) l’antifascismo si configura come un lento cammino fatto all’interno dello stesso fascismo, alimentato dalla delusione per gli insuccessi militari italiani. Non si tratta di un antifascismo ideologico, a favore della democrazia, dei partiti e delle elezioni, ma di «una crescente fatica e sofferenza per le menzogne, per la presa in giro di quel militarismo che aveva minacciato il mondo intero e ora mandava i nostri soldati in guerra, sulle Alpi, letteralmente in brache di tela». È questa crescente insofferenza, unita alla vaga speranza in qualcosa di nuovo e di migliore, che determina la scelta di campo partigiana. Contano meno il contatto con alcuni antifascisti o la lettura di un libro di Benedetto Croce che esalta la libertà, una libertà difficile da comprendere («Capivo e non capivo», ammette Bocca).

Per altri giovani, come Luigi Meneghello (Malo 1922-Thiene 2007), è decisivo l’incontro con un “maestro”, nel caso specifico Antonio Giuriolo. Giuriolo esercita un’enorme ascendenza con il suo esempio di vita (paga il suo essere antifascista non potendo insegnare nelle scuole), con i suoi discorsi pacati ma decisi fatti lungo le strade, sotto i portici, nella sua stanza occupata da decine di libri. Nessun proselitismo forzato, nessun giudizio o costrizione: chi segue il maestro cambia rapidamente, ma cambia per conto suo, comincia a pensare con la propria testa. 

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Per altri, come Raimondo Luraghi, si rivela determinante il disfacimento dell’esercito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e la fuga del re, del governo e delle autorità militari. I soldati, abbandonati a loro stessi, vengono disarmati dai tedeschi, vengono fatti prigionieri o indossano gli abiti borghesi per ritornare alle loro case. Ma alcuni decidono di combattere contro l’invasore tedesco, sui monti o nei gruppi partigiani che operano nelle città.

Per alcuni storici (Renzo De Felice e Ernesto Galli della Loggia), l’8 settembre rappresenta il culmine della crisi dell’idea di nazione, una vera e propria «morte della patria», che la Resistenza non riesce a far rinascere a causa della subalternità agli Alleati e di divisioni e contrasti interni. Per altri (Francesco Barbagallo) quella che muore non è l’idea di patria, ma l’uso distorto fatto in epoca fascista, la nazione fascista e imperialista.

Per i protagonisti di quegli eventi, l’8 settembre rappresenta un momento di forte crisi, la «notte della patria» come la chiama Luraghi, ma non la sua morte. Anzi, è l’inizio della lotta armata in difesa dell’Italia, di cui si sentono gli autentici rappresentanti. Le memorie dei partigiani non sono edulcorate, non nascondono le difficoltà nell’organizzazione e nel coordinamento delle varie bande, le rivalità tra le formazioni di diverso orientamento politico o quelle personali, la violenza di una guerra che non è solo contro il nemico tedesco, ma una guerra civile, di italiani contro italiani, e che vede su fronti diversi amici d’infanzia, compagni di scuola, parenti e conoscenti. Gli schieramenti opposti non sono chiari e definiti, rimane un’ampia zona grigia. Ci sono i fascisti convinti, coloro che credono davvero che il regime di Mussolini rappresenti il miglior sistema di vita, altri che lo sono per abitudine o perché pensano che non sia possibile opporsi alla forza tedesca. Allo stesso modo, tra gli antifascisti ci sono quelli che combattono in prima fila, quelli che lo fanno solo a parole, i traditori, gli opportunisti, i combattenti dell’ultima ora. Lo stesso discorso si può fare per l’intera popolazione: c’è chi aiuta in vario modo i partigiani, affrontando il rischio di rappresaglie, e chi bada unicamente a difendere i propri affari. Lo scontro, infine, è tra la nazione fascista e un’altra nazione, da ricostruire.

Questa idea di rinascita assume toni forti, sebbene a volte confusi. Ai più giovani, a coloro che non hanno conosciuto l’Italia prefascista, non interessano le varie idee politiche, e anche l’appartenenza a un gruppo piuttosto che a un altro (a Giustizia e Libertà, alle brigate Garibaldi, alle brigate Matteotti ecc.) spesso è dettata dal caso, dalle circostanze del momento, da conoscenze o amicizie. I partigiani, ricorda Bocca, si presentano come i rinnovatori dell’ordine costituito, ma senza sapere come fare; stampano giornali in cui si parla di democrazia, di liberalsocialismo, di comunismo senza sapere bene di che cosa si tratti, ma convinti che si risolverà tutto nel migliore dei modi. E anche gli anziani, che avevano conosciuto i limiti e i difetti di quelle ideologie, sperano che la guerra partigiana apra un nuovo capitolo nella storia d’Italia. 

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Il nuovo capitolo si apre, quello dell’Italia repubblicana. La Resistenza, sottolinea lo storico Emilio Gentile, rappresenta un fattore di identità nazionale perché riunisce le diverse correnti politiche antifasciste intorno ai valori della patria e della nazione, ma per breve tempo. Con il ritorno alla normalità e alle dinamiche elettorali, subentra il «patriottismo di partito»: il sentimento nazionale viene sovrastato e schiacciato dall’identificazione con il proprio partito, che rivendica la pretesa di rappresentare l’intera nazione. La crisi della «prima repubblica» negli anni Novanta e le recenti difficoltà economiche hanno accentuato le tendenze antiunitarie e antinazionali che alimentano un diffuso revisionismo storico che parla di “conquista” degli stati preunitari da parte del Piemonte, negando l’esistenza di un movimento nazionale presente in tutta la penisola, e che si nutrono di una diffusa disaffezione nei confronti di uno stato nazionale che non si mostra capace di garantire l’efficienza dei principali servizi (istruzione, sanità, trasporti, lavoro).Note1. G. Mazzini, Della Giovine Italia, «Giovine Italia» (Marsiglia), I, 1832, in G. Mazzini, Scritti politici, a cura di F. Della Peruta, I, Einaudi, Torino 1976, pp. 71-91.

2. Giuseppe Bandi, originario di Gavorrano in provincia di Grosseto, è stato un patriota, scrittore e giornalista italiano. Nel 1860, chiamato da Garibaldi, partecipa alla spedizione dei Mille; su quest’esperienza, nel 1886, scriverà le memorie I Mille. Da Genova a Capua. Terminata la campagna nell’Italia meridionale, Bandi entra nell’esercito regolare, che lascia nel 1870 per dedicarsi al giornalismo. Nel 1872 dirige la «Gazzetta livornese» e nel 1876 fonda il «Telegrafo». Divenuto bersaglio degli anarchici per le critiche a essi rivolte, Bandi viene pugnalato a morte a Livorno il 1° luglio 1894.

3. Giovanni da Procida (Salerno 1210 circa-Roma 1298), medico, diplomatico e uomo politico legato alla dinastia sveva, è considerato dalla tradizione popolare uno dei protagonisti dei Vespri siciliani, la rivolta palermitana del 30 marzo 1282 - giorno dopo Pasqua- contro la dominazione degli Angioini in Sicilia. Giovanni Battista Niccolini (1782-1861), nel 1831, ne fa il protagonista dell’omonima tragedia e simbolo dell’eroe che combatte contro l’oppressore straniero. Il testo viene proibito dalla censura toscana a causa del forte accento patriottico.

4. La citazione è riportata in A.M. Banti, Storia della borghesia italiana. L’età liberale, Donzelli, Roma 1996, p. 366.

5. Cfr. M. Passuello, N. Furegon, Le origini del fascismo a Vicenza e le lotte sociali fra il 1919 e il 1922, Neri Pozza, Vicenza 1981, p. 183.

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