La Shoah: l'obbligo della memoria

Questo progetto di educazione civica intende alimentare la memoria a svolgere il suo necessario ruolo nel processo di costruzione di un futuro nel quale l'indicibile iniquità della Shoah non sia mai più possibile.


Nella storia contemporanea con il termine Shoah si intende il genocidio della popolazione e della cultura ebraica perpetrato dal 1935 al 1945 in Germania e nei Paesi occupati dalle potenze dell’Asse Roma-Berlino durante la Seconda guerra mondiale secondo l’ideologia razzista antisemita predicata da Adolf Hitler, e messa in atto dal Partito Nazional Socialista Tedesco. L’antisemitismo fu adottato dal fascismo italiano, dopo il razzismo antiafricano, con le leggi razziali del novembre 1938 per la difesa della razza italiana (volute dal Partito Nazionale Fascista e sottoscritte da Vittorio Emanuele III di Casa Savoia).

L’antisemitismo costituisce un elemento portante del programma del partito nazista dalla pubblicazione del Mein Kampf (la mia battaglia) raccolta di pensieri composti da Hitler in carcere, dopo il fallito colpo di Stato di Monaco e pubblicato nel 1925. Gli ebrei vi sono concepiti come il male assoluto, responsabili della sconfitta del II Reich tedesco nel 1918 e della successiva crisi sociale ed economica.
Dal 1935 gli ebrei, con le leggi di Norimberga, persero il diritto di cittadinanza tedesco e furono sottoposti ad una dettagliata serie di imposizioni ed esclusioni che li isolavano dalla vita della società civile. L’obiettivo di questa prima fase, culminata nella notte dei cristalli Nacht der Kristalle (9-10 novembre 1938, in cui mille sinagoghe vennero distrutte, 7500 negozi e proprietà ebraiche furono devastati da giovani della Hitlerjugend e da gruppi paramilitari nazisti aizzati dal capo della propaganda nazista Joseph Goebbels, migliaia di ebrei persero la vita, trentamila furono rinchiusi nei campi di concentramento) era quello di privare gli ebrei dei loro averi e di costringerli a pagare la possibilità di fuga. Assenti le reazioni internazionali.

Cortometraggio Volo via

Con l’inizio della guerra e l’occupazione della Polonia (settembre 1939) e poi con l’Operazione Barbarossa e l’attacco con Italia e Romania alla Russia, giugno 1941, gli ebrei di cui occuparsi divennero milioni e spesso di condizioni sociali inferiori.

Gli ebrei polacchi e dei Paesi baltici furono ammassati in condizioni invivibili nei ghetti delle città polacche, quelli prima residenti nei territori occupati dell’URSS (Bielorussia, Russia e Ucraina), massacrati dagli Einsatzgruppen, unità operative di sterminio comandate da ufficiali della Polizia di Sicurezza tedesca (Sicherheitspolizei, Sipo) e del Servizio di Sicurezza (Sicherheitsdienst, SD) tedesco, che iniziarono a fucilare gli ebrei maschi e poi dal settembre 1941 a massacrare ebrei di ogni condizione fucilandoli ai bordi delle fosse comuni fatte scavare dalle stesse vittime.
Questo compito si rivelò però troppo gravoso per le truppe tedesche e Himmler richiese l’adozione di un metodo più comodo per l’eliminazione degli ebrei. Vennero allora costruite, alla fine dell’autunno 1941, delle camere a gas mobili: montate su furgoni per il trasporto merci, e con il sistema di scappamento modificato, esse venivano usate per asfissiare i prigionieri con il monossido di carbonio.

Cortometraggio La parte migliore

Cortometraggio La bambina delle arancia


Film proposto: Jonah che visse nella balena


Testimoni della Memoria:

Liliana Segre

Reduce dell’Olocausto, orfana di madre, nel 1938, vittima delle leggi razziali fasciste, fu costretta ad abbandonare la scuola elementare. Nel 1943 ha cercato di fuggire insieme al padre in Svizzera, ma furono respinti e a tredici anni è stata arrestata a Selvetta di Viggiù e da qui è stata trasferita nel carcere di Varese, poi in quello di Como e infine a Milano. Nel 1944 fu deportata nel campo di concentramento di Birkenau-Auschwitz con il padre e i nonni paterni, con cui viveva. Nel campo di concentramento il padre e i nonni morirono, le venne tatuato il numero di matricola 75190 e fu impiegata nei lavori forzati nella fabbrica di munizioni Union. Venne liberata dall'Armata Rossa nel 1945. S. è una dei venticinque sopravvissuti dei settecentosettantasei bambini italiani di età inferiore ai quattordici anni che furono deportati nel campo di concentramento di Auschwitz. Dal 1990 ha iniziato la sua infaticabile attività di divulgazione della sua esperienza di sopravvissuta, partecipando a molti incontri con gli studenti e convegni di ogni tipo, convinta che l’indifferenza sia peggiore della violenza. È Presidente del comitato per le Pietre d'inciampo - Milano, che raccoglie tutte le associazioni legate alla memoria della Resistenza, delle deportazioni e dell'antifascismo. Nel 2008 ha ricevuto la laurea honoris causa in Giurisprudenza dall'università degli Studi di Trieste e nel 2010 quella in Scienze pedagogiche dall'università degli Studi di Verona. Nel 2018 è stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica Mattarella per aver illustrato la Patria con altissimi meriti nel campo sociale; Cavaliere della Legion d'Onore dal 2020, nel 2021 ha pubblicato, in collaborazione con G. Colombo, il testo La sola colpa di essere nati e il libro Ho scelto la vita. La mia ultima testimonianza pubblica sulla Shoah, che raccoglie il suo ultimo discorso pubblico nella Cittadella della Pace di Rondine. Dal 2021 è presidente della Commissione straordinaria per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza di Palazzo Madama.

Primo Levi

Nato a Torino il 31 luglio 1919, figlio di Ester Luzzati e Cesare Levi, Primo Levi frequentò il liceo classico e nel 1937 si iscrisse all’Università degli Studi di Torino, alla facoltà di Chimica. L’anno successivo in Italia entrarono in vigore le leggi razziali, che impedivano agli ebrei di accedere agli studi, ma concedevano a chi era già iscritto di proseguire il percorso universitario, il che permise all’autore di portare a termine gli studi. Laureato con lode nel 1941, sul suo diploma di laurea compariva l’indicazione: “Di razza ebraica”.Nel 1942 si recò a Milano, dove era riuscito a trovare un lavoro presso una fabbrica di medicinali svizzera, nonostante le leggi razziali; qui entrò in contatto con la militanza antifascista e si unì al Partito d’Azione clandestino. Nel dicembre 1943, essendosi unito a un gruppo partigiano in Valle d’Aosta, fu arrestato dalla milizia fascista e, all’interrogatorio, scelse di dichiararsi ebreo, invece che partigiano; fu quindi portato al campo di Fossoli, in provincia di Modena. Da qui fu trasferito ad Auschwitz, a bordo di un treno merci che trasportava 650 ebrei. 

Primo Levi arrivò ad Auschwitz il 22 febbraio 1944. Al suo arrivo fu marchiato con il numero 174517, secondo la pratica che spogliava i detenuti della loro identità per sostituirla con il numero tatuato sul braccio. Fu poi spostato al campo Buna-Monowitz, anche noto come Auschwitz III. Buna-Monowitz era collocato presso Buna Werke, che allora era uno degli stabilimenti chimici più grandi d’Europa, e il campo era stato costruito nelle vicinanze proprio per utilizzare i detenuti come forza lavoro all’interno dello stabilimento. In quanto chimico, Levi ottenne un incarico come specialista di laboratorio, posizione che gli permise di ottenere condizioni di vita meno faticose, rispetto agli atri detenuti, e gli diede accesso a materiale di contrabbando. A posteriori, lo scrittore attribuì la propria salvezza a diversi fattori, tra i quali la posizione in laboratorio, i compiti meno aggravanti che vi svolgeva, che gli permisero di resistere più a lungo di altri; di grande aiuto fu anche l’incontro con Lorenzo Perrone, muratore impiegato al campo ma non detenuto che riusciva a procurargli del cibo, con grande rischio per se stesso; inoltre, si rivelò molto utile la rudimentale conoscenza del tedesco, ottenuta leggendo saggi scientifici all’Università. La prigionia durò poco meno di un anno, sino al gennaio 1945, quando l’Armata Rossa raggiunse il lager; quando l’arrivo dei Russi si fa imminente, i tedeschi decidono di evacuare il campo, costringendo i detenuti a intraprendere una marcia della morte, in cui persero la vita moltissimi prigionieri. In quel periodo Levi era stato ricoverato in infermeria perché ammalato di scarlattina, e fu quindi escluso dalla marcia di evacuazione, salvandosi così dalla tragica fine toccata a tanti altri.Dei 650 ebrei, uomini e donne, arrivati ad Auschwitz assieme a Primo Levi, soltanto in venti sopravvissero al lager. 

Tornato in Italia, Primo Levi fece del suo meglio per “tornare alla vita”, entrando in contatto con gli amici e i familiari sopravvissuti all’Olocausto e al conflitto, ma soprattutto scrivendo: si buttò a capofitto nella stesura di un’opera memorialistica in cui narrava l’esperienza della prigionia, non tanto per puntare un dito contro i colpevoli di quell’immensa tragedia, quanto piuttosto per tentare di capire, di spiegare, di trovare un perché a quanto era successo.Il manoscritto, da principio intitolato I sommersi e i salvati, fu rifiutato da diversi editori, prima fra tutti la casa editrice Einaudi, con cui all’epoca collaboravano Cesare Pavese e Natalia Ginzburg, che rifiutarono il manoscritto. Era il 1947 e, secondo Pavese, erano già stati pubblicati troppi libri a testimonianza dell’Olocausto. L’autore si rivolse allora a una piccola casa editrice torinese, la De Silva, diretta da Franco Antonicelli, che scelse di pubblicare il manoscritto, ma di cambiarvi il titolo. Fu proprio Antonicelli a scegliere il titolo con cui l’opera è tutt’ora conosciuta: Se questo è un uomo si ispira alle parole della Shemà, preghiera ebraica tra le più sentite della liturgia, da leggere due volte al giorno, durante la lettura del mattino e quella serale. L’epigrafe del romanzo riporta una poesia modellata sulla struttura della Shemà, versi che spiegano il titolo del romanzo e che introducono alla lettura del testo:Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.

Il libro uscì nell’autunno del 1947, in una tiratura di 2.500 copie e, nonostante alcune autorevoli recensioni, non incontrò un immediato successo; Italo Calvino lo descrisse come il più bel libro uscito dall’esperienza della deportazione e Pietro Calamandrei ne pubblico alcuni capitoli su Il Ponte, prestigiosa rivista letteraria dell’epoca.


Oskar Schindler

Nato il 28 aprile 1908 in Moravia, allora parte dell'impero austro-ungarico, Oskar Schindler dimostrò fin da giovane di essere un uomo pratico. Dopo essersi diplomato in un istituto tecnico a sedici anni, in gioventù svolse una gran varietà di lavori: tra gli altri, venditore di macchinari agricoli, meccanico, agricoltore e direttore di una scuola guida. Fu attraverso uno di questi impieghi che conobbe sua moglie, Emilie Pelzl, figlia di un allevatore per cui aveva lavorato, con cui si sposò nel 1928. La famiglia di Schindler, sua moglie inclusa, faceva parte dei gruppi di lingua tedesca che dopo la Prima guerra mondiale erano stati integrati nei Paesi di nuova creazione. Nei Sudeti, la regione della Cecoslovacchia in cui vivevano, il sentimento nazionalista favorevole all'annessione alla Germania si era rafforzato dopo la salita di Adolf Hitler al potere, nel gennaio 1933. Nel 1935 Schindler sollecitò l'affiliazione al Partito dei tedeschi dei Sudeti (SDP), che orbitava intorno al partito nazista; non lasciò traccia delle sue motivazioni, ma basandosi sul suo carattere i biografi tendono a interpretarla come una scelta pratica: il SDP era in forte ascesa e farne parte lo avrebbe aiutato con i contatti lavorativi.  

Se questa era stata la sua motivazione, ci azzeccò in pieno: per più di due anni lavorò come spia per l'Abwehr, i servizi segreti tedeschi con i quali, in teoria, non avrebbe potuto collaborare. Il suo lavoro consisteva nel raccogliere informazioni sulle infrastrutture e l'esercito cecoslovacchi in vista dell'imminente invasione nazista del Paese. Nel luglio 1938 fu però scoperto, incarcerato e condannato a morte: si salvò soltanto perché il settembre di quello stesso anno fu firmato il trattato di Monaco, che prevedeva l'annessione dei Sudeti al Terzo Reich e la liberazione dei prigionieri tedeschi in Cecoslovacchia. Continuò a lavorare per l'Abwehr per altri due anni, contribuendo notevolmente alla raccolta di informazioni sulle infrastrutture polacche, come in precedenza aveva fatto per quelle ceche, facilitando così l'invasione del Paese nel 1939. Dopo l'invasione della Polonia Schindler si stabilì a Cracovia, dove cominciò una doppia carriera: da un lato era proprietario di una fabbrica di smalti ‒ la Deutsche Emailwarenfabrik, in seguito ricordata con il nome di "Emalia" ‒, dall'altro collaborava alla borsa nera: due occupazioni che avrebbero finito per intrecciarsi notevolmente. La fabbrica era appartenuta a un consorzio di ebrei che si era dichiarato in bancarotta, ed era stata comprata da Schindler, che scelse di conservarne i lavoratori. Gli ebrei sotto l'occupazione nazista guadagnavano uno stipendio molto basso, stabilito per legge: come tante altre cose fino a quel momento, si trattò di una decisione pratica finalizzata ad abbattere i costi. O almeno, così fu al principio. Con il tempo, però, Schindler iniziò a prendere coscienza dell'oscura realtà riguardante il nazismo che fino ad allora aveva ignorato. 

Nell'agosto 1940 il governatore generale della Polonia emise l'ordine di trasferire tutti gli abitanti ebrei in campi di concentramento, a eccezione di quanti fossero impiegati in industrie che contribuissero all'economia di guerra: era il caso dell'Emalia, che produceva tra l'altro munizioni. Sfruttando i suoi contatti nelle alte sfere militari Schindler ottenne, una vola dopo l'altra, l'esenzione per i suoi lavoratori.All'epoca le sue intenzioni non si limitavano più al mero interesse, visto che per ottenere queste esenzioni dovette spesso ricorrere a mazzette e pagare di tasca propria. I suoi contatti alla borsa nera si rivelarono molto utili, perché gli permettevano di acquisire articoli di lusso o proibiti dal regime che costituivano una bella tentazione per gli alti ufficiali. Le mazzette gli permisero anche di compilare la famosa lista che nel 1993 diede il titolo al film di Steven Spielberg, grazie alle informazioni fornite da Marcel Goldberg, membro della polizia di origine ebrea. Quando l'Armata rossa sovietica iniziò ad avvicinarsi alla Polonia, Schindler si rese conto che il suo destino era appeso a un filo: malgrado avesse salvato più di mille ebrei, era pur sempre un membro del partito nazista e un ex-ufficiale dell'Abwehr, e ciò faceva di lui un criminale di guerra. Diversi membri del consorzio da cui aveva comprato la fabbrica prepararono un attestato di difesa per Schindler, responsabile di aver salvato la vita agli impiegati della sua fabbrica e molti altri. Restavano comunque dei dubbi rispetto alla comprensività dei sovietici, e così nel maggio 1945 la comunità ebraica lo aiutò a scappare con la sua famiglia in Svizzera.

Grazie alla mediazione di ebrei influenti, Oskar Schindler fu salvato dal processo, ma era una persona non gradita a molti: aveva ancora un conto aperto con la Cecoslovacchia per le sue attività di spionaggio e il suo ruolo nell'annessione dei Sudeti. Inoltre era rimasto quasi senza un soldo a causa di tutto quel che aveva speso per corrompere i nazisti e per la costruzione del sottocampo nella sua fabbrica. Nel 1949 si trasferì con la famiglia in Argentina dove, con l'aiuto di varie famiglie ebree che aveva salvato, cercò di rifarsi una vita come agricoltore, ma senza successo: rovinato e separato dalla moglie, nel 1957 si stabilì in Germania ovest, dove sopravvisse grazie alle donazioni dei Schindlerjuden (in tedesco, "gli ebrei di Schindler"). Nel 1962 il Yad Vashem (l'ente nazionale israeliano per la memoria della Shoah) invitò Schindler e sua moglie a una cerimonia in loro onore, e gli assegnò il titolo di Giusti tra le nazioni, un riconoscimento riservato a persone non ebree che avessero aiutato o protetto le vittime dell'olocausto. Alla sua morte, il 9 ottobre 1974, Israele gli concesse un ultimo onore: la sepoltura a Gerusalemme, nel cimitero cattolico del monte Sion, un omaggio inusuale per un ex-membro del partito nazista. Finì così la vita contraddittoria di un uomo che, da cattivo, visse abbastanza da trasformarsi in eroe.


Giorgio Perlasca

Giorgio Perlasca nasce a Como il 31 gennaio 1910. Negli anni Venti aderisce con entusiasmo al fascismo, in particolar modo alla versione dannunziana e nazionalista. Parte poi come volontario, prima per l’Africa Orientale e poi per la Spagna, dove combatte al fianco del generale Franco. Tornato in Italia al termine della guerra civile spagnola, prende le distanze dalle scelte di Mussolini di allearsi con la Germania e di promulgare le leggi razziali nel 1938. Non per questo, tuttavia, diventa un antifascista.Scoppiata la seconda guerra mondiale, è inviato come incaricato d’affari nei paesi dell’Est con lo status diplomatico. L’Armistizio tra l’Italia e gli Alleati (8 settembre 1943) lo coglie a Budapest. Rifiuta di aderire alla Repubblica Sociale Italiana ed è quindi internato per alcuni mesi in un castello riservato ai diplomatici. Nell'ottobre del 1944 iniziano le persecuzioni sistematiche, la violenza e le deportazioni dei cittadini di religione ebraica. Perlasca, con uno stratagemma, sfugge al controllo sugli internati e si nasconde prima presso conoscenti, poi nell'Ambasciata spagnola. Qui inizia a collaborare con l'Ambasciatore Sanz Briz, il quale ha iniziato a rilasciare i salvacondotti per proteggere i cittadini ungheresi di religione ebraica. 

A fine novembre Sanz Briz deve lasciare l’Ungheria per non riconoscere il nuovo governo filo nazista di Szalasi. Perlasca si presenta come sostituto dell'Ambasciatore spagnolo e regge pressoché da solo l'Ambasciata, con il rischio di essere scoperto dai nazisti e pressato dalla necessità reperire i viveri per gli ebrei rifugiati nelle sue "case protette" lungo il Danubio. Riesce ad evitare la loro deportazione fino all'arrivo dell'Armata Rossa, salvandone ben 5218. Fatto prigioniero dai sovietici e liberato dopo pochi giorni, rientra finalmente in Italia, dove conduce una vita normalissima, chiuso nella sua riservatezza. Non racconta a nessuno, nemmeno in famiglia, la sua storia di coraggio, altruismo e solidarietà, finché negli anni Ottanta alcune ebree ungheresi si mettono alla ricerca del diplomatico spagnolo che durante la seconda guerra mondiale le aveva salvate. Attraverso il giornale della comunità ebraica a Budapest, lo rintracciano a Padova. In questo modo la sua vicenda esce dal silenzio. Giorgio Perlasca muore il 15 agosto del 1992. È sepolto nel cimitero di Maserà, a pochi chilometri da Padova. Sulla sua lapide, a fianco delle date, ha voluto un'unica iscrizione “Giusto tra le Nazioni”, in ebraico.La sua storia è stata raccontata da Enrico Deaglio nel libro La banalità del bene (Feltrinelli, Milano, 1991) da cui è stato tratto il film per la TV Perlasca. Un eroe italiano


Anna Frank

Anne nasce a Francoforte sul Meno nel 1929, da genitori di origine ebraica, a pochi anni di distanza dalla sorella Margot. La famiglia Frank si era trasferita dalla Germania a Amsterdam nel 1933, anno in cui i nazisti hanno ottenuto il controllo in Germania. Nel 1940 la famiglia rimane intrappolata a Amsterdam dall’occupazione tedesca dei Paesi Bassi. Con l’acuirsi delle persecuzioni, nel 1942, per i Frank diventa sempre più complicato non farsi trovare durante i rastrellamenti. Il padre di Anne decide perciò di nascondersi insieme alla famiglia in un alloggio ricavato nel retro della sua fabbrica, accogliendo anche Hermann van Pels con la moglie e il figlio sedicenne Peter e, poco dopo, il dentista Fritz Pfeffer.Nell’alloggio segreto Anne prosegue la stesura del suo diario personale (ricevuto in regalo il giorno del suo tredicesimo compleanno), come un epistolario indirizzato a un’amica immaginaria. Vi annota pensieri e riflessioni intime, racconta quello che accade ogni giorno: la paura della guerra, i suoi sentimenti per Peter, il conflitto con i genitori e il desiderio di diventare una scrittrice una volta tornata la pace.Il 4 agosto del 1944, in seguito alla soffiata di un informatore fatta alla Sicherheitsdienst, la polizia tedesca di Amsterdam, il gruppo viene arrestato e deportato ad Auschwitz. Anne e la sorella Margot verranno poi trasferite a Bergen-Belsen. Moriranno di tifo tra il febbraio e il marzo dell’anno seguente. Quando Anne inizia il suo diario, nel giugno 1942, ha appena compiuto tredici anni. Poche pagine, e all’immagine della scuola, dei compagni e di amori più o meno immaginari, si sostituisce la storia della lunga clandestinità: giornate passate a pelare patate, recitare poesie, leggere, scrivere, litigare, aspettare, temere il peggio.

La ricchezza, la bellezza, tutto si può perdere, ma la gioia che hai nel cuore può essere soltanto offuscata: per tutta la vita tornerà a renderti felice. Prova, una volta che ti senti solo e infelice o di cattivo umore, a guardare fuori quando il tempo è così bello. Non le case e i tetti, ma il cielo. Finché potrai guardare il cielo senza timori, saprai di essere puro dentro e che tornerai a essere felice.

Otto Frank, l’unico sopravvissuto della famiglia, tornò a Amsterdam dopo la guerra per scoprire che il diario di Anne era stato salvato e dedicò i suoi sforzi per arrivare a pubblicarlo, nel 1947.“Vedo noi otto nell’alloggio segreto come se fossimo un pezzetto di cielo azzurro circondati da nubi nere di pioggia”, ha il coraggio di scrivere Anne. Obbedendo a una sicura vocazione di scrittrice, Anne ha voluto e saputo lasciare testimonianza di sé e dell’esperienza degli altri clandestini. La prima edizione del Diario subì tuttavia non pochi tagli, ritocchi, variazioni. Ora il testo è stato restituito alla sua integrità originale, e ci consegna un’immagine nuova: quella di una ragazza vera e viva, ironica, passionale, irriverente, animata da un’allegra voglia di vivere, già adulta nelle sue riflessioni.

Vedo noi otto nell’alloggio segreto come se fossimo un pezzetto di cielo azzurro circondati da nubi nere di pioggia.

Approfondimento (link)

Jonah Oberski

Nasce ad Amsterdam il 20 marzo 1938 da una famiglia ebrea che nel 1937 era fuggita dalla Germania nazista per stabilirsi nei Paesi Bassi. Nel 1940, quando Jona ha appena due anni, avviene l’invasione delle truppe tedesche e l’intera famiglia degli Oberski fu arrestata dai nazisti e condotti al campo di concentramento di Westerbork, situato a Hooghale, dieci chilometri a nord di Westerbork, nel nord-est dei Paesi Bassi, per poi successivamente essere trasferita al campo di concentramento di Bergen-Belsen, situato nella bassa Sassonia, a sud-est della cittadina di Bergen.

Il 23 marzo del 1942, dopo due anni di prigionia, a quattro anni (tre giorni dopo il suo compleanno) Jona vede morire il padre Max di stenti e denutrizione a soli 40 anni; la madre Anna quasi impazzisce per il dolore. Dopo altri 3 anni nel campo di concentramento Anna e Jona vengono fatti salire su un treno diretti al campo di sterminio di Auschwitz. Per loro fortuna, un bombardiere russo, colpendo il vagone dei soldati, fa deragliare il treno che trasporta circa cinquecento prigionieri. A causa del deragliamento, gli ebrei vengono dirottati verso un piccolo paesino di montagna, Tröbitz, dove Jona vive in una casa con la madre e una ragazza di tredici anni, Trude, che era stata con lui e la madre nel campo di concentramento. Anna, ormai mentalmente instabile, viene ricoverata in un ospedale vicino perché non vuole più mangiare o bere o prendere medicine, convinta che l’acqua sia avvelenata e che tutti vogliano la sua morte; in breve tempo la donna muore, all’età di 42 anni.

Da Tröbitz, Jona viene portato ad Amsterdam dove viene accolto dalla famiglia Daniel, la stessa che aveva aiutato gli Obersky prima della loro deportazione, offrendo a Max un nuovo lavoro. Jona inizialmente vive con molta difficoltà la sua condizione di sopravvissuto, soprattutto a causa della perdita della madre, che lo segna causandogli forti squilibri: è scontroso, non vuole mangiare né bere. I Daniel non sanno cosa fare, finché un giorno gli comprano una bicicletta: Jona ricorda così i momenti passati col padre e decide di provare la bici, e dopo tanto tempo lo si vede sorridere di nuovo. Jona andò a scuola ed all’università, rivelandosi uno studente modello e diventando uno specialista in fisica nucleare. Attualmente lo scienziato vive ad Amsterdam, è sposato, ha tre figli ed è ancora accademicamente attivo.

Le terribili esperienze vissute da Jona Oberski nei primi sette anni di vita sono da lui narrate nel libro “Anni d’infanzia. Un bambino nei lager” pubblicato nel 1978. Jona descrive la sua tragica esperienza nei campi di sterminio vista attraverso i suoi occhi di bambino. Tale opera ha avuto un grande successo in tutto il mondo ed ha ispirato vari film ed opere sull’argomento tra cui “Jona che visse nella balena“, film del 1993 di Roberto Faenza, uscito quattro anni prima di “La vita è bella” di Roberto Benigni, che affronta temi molto simili. Personalmente vi consigliamo la visione di questo film drammatico, molto toccante soprattutto pensando che è ispirato a fatti veri.

“Tu devi guardare il cielo, ricordati: guarda sempre il cielo. E non odiare mai nessuno”. La madre di Jona a suo figlio, dal film “Jona che visse nella balena”.